OTTANTATRE QUESTIONI DIVERSE
1. - L’ANIMA ESISTE DA SE STESSA?
Ogni vero è vero per la verità, e ogni anima in tanto è anima in quanto è vera anima. Ogni anima, per essere anima in senso pieno, dipende dunque dalla verità. Altro però è l’anima, altro è la verità, perché la verità non è mai soggetta a falsità, mentre l’anima spesso s’inganna. Poiché l’anima è dalla verità, non è dunque da se stessa. Ma la verità è Dio: quindi l’anima, per essere, ha Dio per autore.
2. - IL LIBERO ARBITRIO
Tutto ciò che viene fatto non si può equiparare a chi l’ha fatto; altrimenti bisogna eliminare dalle cose la giustizia, che deve dare a ciascuno il suo. Dio dunque, quando ha creato l’uomo, pur avendolo creato ottimo, non l’ha tuttavia creato uguale a se stesso. Ma l’uomo che è buono volontariamente è migliore di chi lo è per necessità. Era pertanto necessario concedere all’uomo una volontà libera.
3. - DIO È AUTORE DELLA PERVERSIONE UMANA?
Nessun uomo diventa peggiore per opera di un uomo sapiente. Questa non è affatto una colpa insignificante: anzi è così grande che non può trovarsi in un uomo sapiente. Dio però è più eccellente di qualunque uomo sapiente. Molto meno quindi l’uomo diviene peggiore per opera di Dio, poiché la volontà di Dio è molto più eccellente di quella dell’uomo sapiente. Quando poi si dice che è l’autore, s’intende che egli vuole. È dunque per colpa della volontà che l’uomo diventa peggiore. Se questo vizio, come insegna la ragione, è assolutamente estraneo alla volontà di Dio, bisogna cercare dove si trova.
4. - LA CAUSA DELLA PERVERSIONE UMANA
La causa della perversione dell’uomo si trova in lui o in qualcun altro o nel nulla. Se nel nulla, non c’è una causa. Ma se nel nulla s’intende che l’uomo è stato tratto dal nulla o dagli elementi che sono stati fatti dal nulla, la causa allora sarà ancora in lui, perché il nulla è, per così dire, la sua materia. Se la causa è in un altro, chiedersi è in Dio o in qualche altro uomo, oppure in qualcosa che non sia né Dio né uomo. Di certo non è in Dio, perché Dio è la causa dei beni. Se dunque è nell’uomo, o c’è per forza o per convinzione. Per forza non è assolutamente possibile, perché non c’è causa più potente di Dio. Dio ha infatti creato l’uomo così perfetto che, se vuole rimanere ottimo, non ne sarebbe impedito dall’opposizione di alcuno. Se invece ammettiamo che l’uomo può pervertirsi per consiglio di un altro uomo, bisognerà cercare di nuovo da chi è stato pervertito lo stesso cattivo consigliere. È infatti impossibile che non sia cattivo un tale consigliere. Resta un non so che d’indefinito, che non sia né Dio né uomo: ma qualunque cosa sia, o ha usato la forza o la persuasione. Riguardo alla forza si risponderà come sopra; invece, qualunque sia il motivo della persuasione, poiché il consiglio non costringe chi non vuole, la causa della sua perversione ricade nella stessa volontà dell’uomo, sia o non sia stato pervertito dal consiglio di qualcuno.
5. - L’ANIMALE IRRAZIONALE PUÒ ESSERE FELICE?
L’animale privo di ragione non ha scienza. Ora nessun animale privo di ragione può essere felice. Dunque gli animali privi di ragione non sono felici.
6. - IL MALE
Tutto ciò che esiste o è corporeo o incorporeo. Il corporeo appartiene alla sfera sensibile, l’incorporeo invece a quella intelligibile. Tutto ciò che esiste, non è senza una qualche specie. Ma dove c’è una specie, c’è necessariamente un modo di essere e il modo di essere è un bene. Il male assoluto non ha pertanto alcun modo di essere, perché è sprovvisto di qualsiasi bene. Anzi non esiste neppure, poiché non è contenuto da alcuna specie, e il concetto stesso di male è derivato dalla privazione di specie.
7. - NELL’ESSERE ANIMATO CHE COSA SI CHIAMA PROPRIAMENTE ANIMA?
Qualche volta si parla di anima per indicare la mente, come quando diciamo che l’uomo è composto di anima e di corpo; qualche volta invece se ne parla, escludendo la mente. Ma quando se ne parla, prescindendo dalla mente, ci si riferisce alle attività che abbiamo in comune con gli animali. Le bestie infatti non hanno la ragione, facoltà che appartiene alla mente.
8. - L’ANIMA SI MUOVE DA SÉ?
Chi avverte di avere in sé una volontà, sente che l’anima si muove da se stessa. Se infatti noi vogliamo, non è un altro a decidere per noi. Questo movimento dell’anima è spontaneo: le è stato dato da Dio. Non si tratta però di movimento locale, come quello del corpo: infatti il movimento locale è proprio del corpo. Quando poi l’anima con la volontà, cioè con quel movimento che non è locale, muove il suo corpo nello spazio, non ne consegue che anch’essa si muova localmente. Allo stesso modo noi vediamo che qualcosa è mossa localmente da un perno per un grande spazio, mentre il perno stesso non cambia affatto posizione.
9. - LA VERITÀ PUÒ ESSERE PERCEPITA DAI SENSI DEL CORPO?
Tutto ciò che il senso corporeo percepisce è detto sensibile ed è soggetto a continuo mutamento : così avviene, ad esempio, nella crescita dei capelli del nostro capo, o nell’invecchiamento del corpo o nello sviluppo della giovinezza. Tutto ciò si verifica continuamente senza interruzione del movimento. Ora ciò che non sta fermo non può essere percepito: si percepisce infatti solo ciò che può essere colto dalla scienza, e non si può conoscere ciò che muta incessantemente. Non si deve dunque aspettare dai sensi del corpo la verità autentica. Qualcuno non dica che vi sono oggetti sensibili che rimangono sempre nello stesso stato e ci ponga avanti il caso del sole e delle stelle, sui quali non è facilmente possibile convincersi. Certamente non c’è nessuno che non sia costretto ad ammettere che non vi è alcuna cosa sensibile che non presenti una tale apparenza di falsità da non potersi distinguere. Tralasciando altri casi, tutto ciò che sentiamo mediante il corpo suscita in noi delle immagini come se fosse presente, anche quando non è presente ai sensi, come nel sonno o nell’allucinazione. In questi casi siamo assolutamente incapaci di distinguere se si tratta di percezioni sensibili o di immagini di cose sensibili. Se pertanto sono immagini false di cose sensibili e non possono essere distinte dagli stessi sensi - e non si percepisce nulla all’infuori di ciò che si distingue dal falso -, vuol dire che il criterio di verità non è riposto nei sensi. Siamo perciò molto salutarmente invitati a distoglierci da questo mondo corporeo e sensibile e a rivolgerci con tutto l’ardore a Dio, cioè alla Verità, colta con l’intelletto e il pensiero interiore, che rimane sempre uguale a se stessa e non ha alcuna somiglianza con la falsità, sì da non poterla distinguere.
10. - IL CORPO VIENE DA DIO?
Ogni bene è da Dio; ogni cosa bella, in quanto è bella, è buona. È bello tutto ciò che ha una forma. Ogni corpo, per essere corpo, rientra in una forma. Ogni corpo quindi è da Dio.
11. - PERCHÉ CRISTO È NATO DA DONNA?
Quando Dio libera, non libera solo una parte, ma tutto l’essere che si trova in pericolo. La Sapienza dunque e la Potenza di Dio, ossia il Figlio unigenito, assumendo l’umanità, ha manifestato la liberazione dell’uomo. Ora la liberazione dell’uomo doveva trasparire nei due sessi. Dovendo quindi assumere la natura dell’uomo, che è il sesso più ragguardevole, era logico che la liberazione del sesso femminile si mostrasse da questo fatto: che quell’Uomo è nato da donna.
12. - SENTENZA DI UN SAPIENTE
" Impegnatevi ", egli dice, " o miseri mortali, sforzatevi perché lo spirito maligno non inquini mai questa dimora; insinuatosi attraverso i sensi non vìoli la santità dell’anima e offuschi la luce dell’intelligenza. Questo male s’infiltra in tutti gli aditi dei sensi: si presta alle figure, si adatta ai colori, s’inserisce nei suoni; si cela nella collera e nei discorsi menzogneri; si mischia agli odori, s’immerge nei sapori e, attraverso movimenti torbidi e disordinati, oscura i sensi con sensazioni tenebrose; riempie di caligine tutti i meandri dell’intelligenza, attraverso i quali l’irradiazione del pensiero sprigiona abitualmente la luce della ragione. E poiché è irradiazione della luce celeste e in essa c’è il riflesso della divina presenza, in questa luce risplende Dio, la volontà retta, il merito della buona azione. Dio è ovunque presente; si trova in ognuno di noi quando la purezza illibata del nostro spirito ha coscienza di essere alla sua presenza. Quando la vista degli occhi è difettosa non avverte la presenza di ciò che non riesce a vedere - infatti l’immagine presente delle cose sta invano davanti agli occhi, se gli occhi mancano d’integrità - così anche Dio, che non è mai assente, è presente invano agli spiriti corrotti: la cecità dello spirito non lo può vedere ".
13. - QUALE SEGNO DIMOSTRA CHE GLI UOMINI SONO SUPERIORI AGLI ANIMALI?
Tra le molte prove con le quali si può mostrare che l’uomo supera le bestie con la ragione, questa è a tutti manifesta: le bestie possono essere domate e addomesticate dagli uomini, gli uomini giammai dalle bestie.
14. - IL CORPO DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO NON ERA UN’APPARENZA
Se il corpo di Cristo fosse stato un’apparenza, Cristo ci avrebbe ingannato e, se ci avesse ingannato, egli non sarebbe la verità. Ora Cristo è la verità. Il suo corpo quindi non fu un’apparenza.
15. - L’INTELLETTO
Chiunque conosce se stesso, comprende se stesso. Chi poi comprende se stesso, è limitato a se stesso. Ora l’intelletto si conosce: dunque è limitato a se stesso. Non desidera essere infinito, anche se lo potesse; desidera invece essere consapevole di se stesso, perché si ama.
16. - IL FIGLIO DI DIO
Dio è la causa di tutto ciò che è. Ma la causa di tutte le cose è anche la causa della propria sapienza. Ora Dio non è mai senza la sapienza. Pertanto la causa della sua sapienza eterna è eterna e non precede nel tempo la sua sapienza. Inoltre se è proprio di Dio essere eternamente Padre, non ci fu mai tempo in cui non era Padre, né è mai stato senza il Figlio.
17. - LA SCIENZA DI DIO
Tutto il passato non è più; tutto il futuro non è ancora; quindi tutto il passato e tutto il futuro non esistono. Ma nulla è assente davanti a Dio: dunque non c’è passato né futuro, ma tutto è presente davanti a Dio.
18. - LA TRINITÀ
In tutto ciò che esiste altro è la costituzione, altro la specificità, altro la struttura. Ogni creatura dunque, se esiste in qualche modo e differisce enormemente da ciò che non esiste affatto e si struttura convenientemente nelle sue diverse parti, deve avere anche una triplice causa che la faccia essere, la determini, la armonizzi con se stessa. Ora noi diciamo che Dio è la causa, cioè l’autore della creatura. È dunque necessario che egli sia Trinità: la ragione perfetta non può trovare niente di più eccellente, di più intelligente e di più felice di essa. Per questo motivo, anche quando si cerca la verità, non possono esserci più di tre generi di questioni: se l’oggetto esiste realmente, se è una cosa o un’altra, se merita approvazione o disapprovazione.
19. - DIO E LA CREATURA
Ciò che non muta è eterno, perché permane sempre nello stesso modo. Invece ciò che muta è soggetto al tempo, perché non permane sempre nello stesso modo. Di conseguenza non è giusto dirlo eterno. Infatti ciò che cambia non permane: ciò che non permane non è eterno. La differenza tra immortale ed eterno è questa: ogni eterno è immortale, ogni immortale non può dirsi, con evidente sottigliezza, eterno. Infatti se una cosa vive sempre, ma è soggetta a mutazione, non può dirsi propriamente eterna, perché non permane sempre nello stesso stato, sebbene possa dirsi giustamente immortale, perché vive sempre. Talvolta si dice eterno anche ciò che è immortale. Ma ciò che è soggetto a mutazione e si dice che vive per la presenza dell’anima, pur non essendo anima, non si può in alcun modo ritenere immortale né tanto meno eterno. Nell’eterno propriamente detto non c’è nulla infatti di passato, come se fosse già trascorso, né alcunché di futuro, come se non fosse ancora, ma tutto ciò che c’è, è semplicemente.
20. - IL LUOGO DI DIO
Dio non è in un luogo. Infatti ciò che si trova in un luogo è racchiuso dal luogo e ciò che è racchiuso dal luogo è corpo. Ora Dio non è corpo: dunque non si trova in un luogo. E tuttavia, poiché è e non è in un luogo, in lui sono tutte le cose piuttosto che lui in qualche luogo. Le cose però non sono in lui come se egli fosse un luogo, perché il luogo è nello spazio, che è occupato dalla lunghezza, dalla larghezza e dall’altezza del corpo. Dio non è nulla di tutto questo. Eppure tutte le cose sono in lui ed egli non è un luogo. Tuttavia solo abusivamente si dice che il luogo di Dio è il tempio di Dio, non perché vi è contenuto, ma perché egli è presente. Ora non si può concepire un tempio migliore dell’anima pura.
21. - DIO NON È AUTORE DEL MALE
Chiunque è l’autore di tutto ciò che esiste, soltanto dalla sua bontà dipende l’esistenza di tutto ciò che è; a lui non può assolutamente appartenere il non essere. Tutto ciò che viene meno si allontana dall’essere e tende al non essere. Ora l’essere e il non venir meno in alcuna parte è bene, invece il venir meno è male. Ma colui al quale non appartiene il non essere, non è la causa del venir meno, cioè del tendere al non essere, perché è, se si può dire così, la causa dell’essere. Dunque è soltanto causa del bene e per questo motivo egli è il sommo Bene. Di conseguenza non è autore del male colui che è autore di tutte le cose esistenti le quali, in quanto sono, sono buone.
22. - DIO NON È SOGGETTO ALLA NECESSITÀ
Dove non c’è indigenza, non c’è necessità; dove non c’è difetto, non c’è indigenza. Ora a Dio non manca nulla, quindi non c’è alcuna necessità.
23. - IL PADRE E IL FIGLIO
Il casto è casto per la castità; l’eterno è eterno per l’eternità; il bello è bello per la bellezza; il buono è buono per la bontà. Quindi anche il sapiente è sapiente per la sapienza e il simile per la somiglianza. In due modi però si può dire casto per la castità: o perché la produce, sicché è casto per quella castità che genera e della quale è principio e causa di esistenza, oppure, in altro senso, è casto perché partecipa della castità, sicché a volte può anche non essere casto. Lo stesso dicasi degli altri casi. È infatti oggetto di conoscenza e di fede che anche l’anima consegua l’eternità, ma essa diventa eterna perché partecipa dell’eternità. Dio invece non è eterno in questo modo: egli è autore dell’eternità stessa. Ciò vale anche per la bellezza e la bontà. Pertanto, allorché si dice che Dio è sapiente, e lo si dice per quella sapienza di cui sarebbe un delitto credere che talvolta sia stato privo o potrebbe essere privo, non è detto sapiente perché partecipa della sapienza, come l’anima che può essere o non essere sapiente, ma perché egli stesso ha generato quella sapienza, per la quale è detto sapiente. Allo stesso modo le cose che sono o caste, o eterne, o belle, o buone, o sapienti per partecipazione hanno la possibilità, come si è detto, di non essere né caste, né eterne, né belle, né buone, né sapienti. Ma la castità stessa, l’eternità, la bellezza, la bontà, la sapienza non sono affatto soggette o alla corruzione o, per così dire, alla temporalità, o alla deformità, o alla malizia. Anche le cose che sono simili per partecipazione sono dunque soggette alla dissomiglianza. La somiglianza stessa però non può assolutamente essere dissimile in alcuna parte. Di conseguenza quando il Figlio è detto somiglianza del Padre (poiché per partecipazione a lui sono simili tutte le cose che si assomigliano tra loro o a Dio: tale è infatti la prima specie da cui le cose ricevono, per dire così, la loro specie e forma da cui tutte sono formate), da nessun punto di vista il Figlio può essere dissimile dal Padre. Egli è dunque uguale al Padre, solo che uno è Figlio e l’altro Padre, cioè uno è la somiglianza e l’altro colui del quale il Figlio è la somiglianza; uno è sostanza e l’altro sostanza, da cui risulta un’unica sostanza. Se infatti non è una sola, la somiglianza riceve la dis(somiglianza): ipotesi che ogni ragionamento rigoroso rifiuta.
24. - PECCATO E BUONA AZIONE DIPENDONO
DAL LIBERO ARBITRIO DELLA VOLONTÀ?
Tutto ciò che avviene a caso, avviene senza riflessione; tutto ciò che avviene sconsideratamente esula dalla provvidenza. Se dunque nel mondo succedono cose fortuite, l’universo non è regolato dalla provvidenza. Se tutto l’universo non è guidato dalla provvidenza c’è qualche natura o sostanza che sfugge all’azione della provvidenza. Ora tutto ciò che esiste, in quanto esiste, è bene. Bene sommo è il bene di cui partecipano tutti gli altri beni. Ora tutto ciò che muta, poiché esiste, è bene non per se stesso, ma per partecipazione al bene immutabile. Invece il bene immutabile, di cui partecipano tutti gli altri beni, comunque siano, è bene per se stesso senza relazione ad altro: noi lo chiamiamo anche divina provvidenza. Dunque nel mondo niente avviene a caso. Ammesso questo ne segue che tutto ciò che accade nel mondo, in parte dipende dall’azione divina e in parte dalla nostra volontà. Ma Dio è di gran lunga e senza paragone migliore e più giusto di qualunque uomo pur ottimo e giustissimo. Ora il Dio giusto che regge e governa ogni cosa non permette che qualcuno sia castigato o premiato senza che lo meriti. Ora merita castigo il peccato, merita ricompensa la buona azione. Ma né il peccato né la buona azione si possono giustamente imputare a chi non ha agito di propria volontà. Il peccato e la buona azione dipendono dunque dal libero arbitrio della volontà.
25. - LA CROCE DI CRISTO
La Sapienza di Dio ha assunto l’umanità per mostrarci come noi possiamo vivere rettamente. È proprio della vita buona non temere ciò che non deve temersi. Ora non si deve temere la morte. Era pertanto opportuno mostrarlo con la morte di quell’Uomo che la Sapienza di Dio ha assunto. Vi sono però degli uomini che, pur non temendo la morte, hanno in orrore un particolare genere di morte. Ciononostante, come non bisogna temere la stessa morte, così per l’uomo che vive bene e rettamente non c’è da temere alcun genere di morte. Ma anche questo si doveva dimostrare con la croce di quell’Uomo. Infatti, tra tutti i generi di morte, non ce n’era uno più odioso e spaventoso di quello.
26. - LA DIVERSITÀ DEI PECCATI
Alcuni sono peccati di debolezza, altri di inavvertenza, altri di malizia. La debolezza è contraria alla fortezza, l’inavvertenza alla sapienza, la malizia alla bontà. Chi è in grado di conoscere cos’è la potenza e la sapienza di Dio 1 può discernere quali sono i peccati veniali; chi è in grado di conoscere cos’è la bontà di Dio può valutare quali peccati meritano una determinata pena sia in terra che nel secolo futuro. E dopo aver ben valutato tutto ciò, si può giudicare, con probabilità, chi non deve essere sottoposto alla penitenza luttuosa e lacrimevole, sebbene confessi i suoi peccati, e chi invece non può sperare salvezza, a meno che non offra a Dio come sacrificio uno spirito contrito dalla penitenza.
27. - LA PROVVIDENZA
Può avvenire che la divina Provvidenza punisca o salvi mediante un uomo cattivo. L’empietà dei Giudei ha infatti soppiantato i Giudei e salvato le Genti. Può anche accadere che la divina Provvidenza condanni o aiuti mediante un uomo buono, come dice l’Apostolo: Noi siamo per gli uni odore di vita per la vita e per gli altri odore di morte per la morte 2. Ma poiché ogni tribolazione è castigo per gli empi e prova per i giusti - una stessa trebbiatrice, da cui prende nome la tribolazione, trita la paglia e libera il grano dalla paglia -, anche la pace e la quiete dalle molestie corporali tornano a vantaggio dei buoni e a danno dei cattivi: è la divina Provvidenza a regolare tutto questo secondo i meriti delle anime. I buoni tuttavia non ricercano l’aiuto della tribolazione né i cattivi amano la pace. Costoro pertanto, perché sono strumenti inconsapevoli di ciò che avviene, ricevono la ricompensa della loro malizia non della giustizia che dipende da Dio. Allo stesso modo non viene imputato ai buoni, desiderosi di giovare, ciò che danneggia qualcuno, ma viene concesso il premio della benevolenza alla buona intenzione. Ugualmente anche il resto della creazione, a seconda dei meriti delle anime razionali, o è percepito o è nascosto, o è dannosa o utile. Poiché il sommo Dio governa saggiamente tutto il creato, nel mondo non c’è nessun disordine e nessuna ingiustizia, sia che noi ne siamo consapevoli o meno. Ma l’anima peccatrice è parzialmente danneggiata: poiché a causa delle sue colpe si trova dov’è giusto che sia un tale essere e subisce quanto è giusto che subisca un tale essere, non riesce tuttavia con la sua deformità a sfigurare l’insieme del regno di Dio. Dunque, poiché non conosciamo totalmente quanto realizza a nostro vantaggio l’ordine divino, operiamo secondo la legge con la sola buona volontà; per il resto lasciamoci guidare dalla legge, poiché la legge stessa permane immutabile e governa tutte le cose mutevoli con un perfettissimo regolamento. Quindi gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà 3.
28. - PERCHÉ DIO HA VOLUTO CREARE IL MONDO
Chi si domanda perché Dio ha voluto creare il mondo, cerca la causa della volontà di Dio. Ma ogni causa è efficiente. Ora ogni efficiente è maggiore dell’effetto prodotto. Ma niente è maggiore della volontà di Dio. Non c’è dunque motivo di cercarne la causa.
29. - NELL’UNIVERSO ESISTE L’ALTO E IL BASSO?
Pensate alle cose di lassù 4. Siamo invitati a gustare le cose di lassù, cioè le cose spirituali, che non sono da intendere come se fossero innalzate negli spazi o nelle parti di questo mondo, ma a motivo della loro eccellenza, purché non attacchiamo il nostro cuore a qualche parte di questo mondo, da cui dobbiamo liberarci totalmente. Nelle sue parti c’è l’alto e il basso. Ma l’universo in se stesso non ha né alto né basso. È infatti corporeo e tutto ciò che si vede è corporeo. Ora nell’universo corporeo non c’è niente di alto e di basso. Poiché sembra che il moto rettilineo, vale a dire quello non circolare, avviene in sei direzioni: avanti e indietro, destra e sinistra, sopra e sotto, non c’è affatto alcun motivo perché nell’universo corporeo non vi sia nulla avanti e indietro, a destra e sinistra, mentre invece sia sopra e sotto. Ma coloro che pensano così s’ingannano, perché è difficile resistere ai sensi e all’abitudine. Infatti non sarebbe così facile per noi capovolgere il corpo, come avviene se qualcuno volesse muoversi a testa in giù, come invece lo sarebbe muoversi da destra a sinistra o avanti e indietro. Lasciamo pertanto da parte le parolee preoccupiamoci seriamente di comprendere con l’intelletto laquestione.
30. - TUTTO È STATO CREATO PER L’UTILITÀ DELL’UOMO?
Tra onesto e utile intercorre la stessa differenza che c’è tra godere e usare. Sebbene con una certa sottigliezza si possa infatti sostenere che ogni onesto è utile e ogni utile è onesto, tuttavia, siccome è più appropriato e comune chiamare onesto ciò che si desidera per se stesso e utile ciò che si riferisce a qualcos’altro, noi ora parliamo secondo questa differenza, dando per scontato che onesto e utile non si oppongono affatto tra loro, poiché talvolta si ritiene, sconsideratamente e superficialmente, che siano in opposizione tra loro. Godere si dice dunque di una cosa da cui traiamo piacere; usare si dice invece di una cosa che riferiamo ad un’altra da cui si ricava piacere. Tutta la perversione umana, che ha anche il nome di vizio, consiste nel volere fare uso delle cose da godere e nel voler godere delle cose da usare. Invece il retto ordine, che ha anche il nome di virtù, consiste nel godere delle cose da godere e nell’usare delle cose da usare. Bisogna godere delle cose oneste e fare uso delle utili. Chiamo onestà la bellezza intelligibile, detta più propriamente spirituale, e utilità la divina Provvidenza. Per questo motivo, sebbene molte siano le cose visibili, che solo impropriamente si chiamano oneste, la stessa bellezza, per cui sono belle tutte le cose belle, non è assolutamente visibile. Anche molte cose utili sono visibili, ma la stessa utilità, per cui tornano a nostro vantaggio le cose che giovano, e che noi chiamiamo divina Provvidenza, non è visibile. Con il termine visibile, s’intendono, com’è noto, tutte le cose corporee. Bisogna quindi godere delle bellezze invisibili, cioè oneste; se poi si tratta di tutte, è un’altra questione; sebbene sia forse conveniente chiamare oneste solo quelle da godere. Bisogna invece far uso di tutte le cose utili, a seconda della necessità che si ha di ognuna. A ragione si ritiene che anche le bestie godano del cibo e di qualsiasi soddisfazione corporea; solo l’animale dotato di ragione può invece far uso di una cosa. Sapere infatti a che debba riferirsi una cosa non è concesso agli esseri privi di ragione e neppure agli stolti dotati di ragione. Nessuno poi può utilizzare una cosa se ignora a che cosa debba riferirla, e nessuno può saperlo all’infuori del sapiente. Di coloro perciò che fanno cattivo uso delle cose si dice di solito e più giustamente che ne abusano. Il cattivo uso infatti non giova a nessuno, e ciò che non giova non è certamente utile. Invece ciò che è utile è utile perché si usa e nessuno utilizza se non ciò che è utile; chi poi ne usa male, in realtà non ne fa uso. La perfetta ragione dell’uomo, che si chiama virtù, si serve innanzitutto di se stessa per conoscere Dio e godere di colui dal quale è stata anche creata. Si serve poi degli altri esseri ragionevoli in funzione della società, e degli esseri irrazionali in funzione della supremazia. Orienta inoltre la sua vita al godimento di Dio: solo così infatti è felice. Si serve dunque anche di se stessa e sicuramente dà inizio alla propria miseria, a causa della superbia, se si rivolge a se stessa e non a Dio. Fa uso anche di alcuni corpi, che essa vivifica per fare del bene (così infatti fa uso del proprio corpo): ne accoglie alcuni e rifiuta altri in vista della salute, alcuni sopporta con pazienza, altri ordina alla giustizia, altri indaga per approfondire qualche verità; si serve anche di ciò da cui si astiene in vista della temperanza. In tal modo si serve di tutto ciò che passa o non passa attraverso i sensi: non c’è una terza possibilità. Giudica poi tutte le cose che utilizza. Essa non giudica solo Dio, perché in rapporto a Dio giudica tutto il resto: di lui non fa uso, ma gode. Dio infatti non si deve riferirlo ad altro, perché tutto ciò che si riferisce ad altro è inferiore a quello a cui viene riferito. Non c’è niente di superiore a Dio, non dal punto di vista dello spazio, ma dell’eccellenza della sua natura. Tutto ciò che è stato creato è dunque stato creato ad uso dell’uomo, perché la ragione, che è stata data all’uomo, fa uso di tutto giudicando di tutto. Prima della caduta l’uomo non faceva uso delle cose da sopportare, dopo la caduta ne fa uso solo se si è convertito e, ancor prima della morte del corpo, è diventato, per quanto è possibile, amico di Dio, servendolo volentieri.
31. - TEORIA DI CICERONE SULLA DIVERSITÀ E DEFINIZIONE
DELLE VIRTÙ DELL’ANIMA (De invent. 2, 53, 159 - 55, 167)
1. " La virtù è un abito dell’animo conforme al modo di essere della natura e della ragione. Conosciute quindi tutte le sue parti, sarà presa in considerazione tutta la forza della semplice onestà. Ora la virtù consta di quattro parti: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. La prudenza è la scienza delle cose buone, cattive e indifferenti. Sue parti sono la memoria, l’intelligenza e la previsione. La memoria è la facoltà dell’animo che rievoca le cose passate; l’intelligenza è la facoltà che comprende le cose presenti; la previsione è la facoltà che percepisce un evento futuro prima che accada. La giustizia è un abito dell’animo mantenuto per l’utilità sociale, che dà a ciascuno il suo merito. Ha origine dalla stessa natura: alcune cose poi sono diventate consuetudini per ragione di utilità; in seguito il rispetto delle leggi e la religione hanno consacrato ciò che era scaturito dalla natura e approvato dalla consuetudine. Il diritto naturale non è originato dall’opinione, ma è radicato da una forza innata, come la religione, la pietà, la gratitudine, la punizione del male, il rispetto, la sincerità. La religione insegna la venerazione e il culto di una natura superiore, chiamata divina. La pietà rende ai consanguinei e alla patria un devoto servizio e una diligente venerazione. La gratitudine conserva la memoria delle amicizie e dei benefici e la volontà di ricambiarli. La vendetta respinge con la difesa e la repressione l’ingiuria e tutto ciò che potrebbe essere nocivo. Il rispetto ritiene degni di onore e riverenza le persone che primeggiano per qualche dignità. La sincerità riconosce la stabilità delle cose presenti, passate e future. Il diritto consuetudinario invece è quello che, derivato timidamente dalla natura, è alimentato e sviluppato dall’uso, come la religione e, tra le cose menzionate precedentemente, quelle che, derivate dalla natura, noi vediamo rafforzate a motivo della consuetudine, oppure quelle che per la loro antichità sono diventate consuetudine per consenso popolare. Di questo genere sono il patto, la parità, la sentenza. Il patto è un accordo tra alcuni; la parità è uguaglianza per tutti; la sentenza è ciò che è stato sanzionato da un atto giudiziario nei riguardi di qualcuno o di alcuni. Il diritto legale è codificato in un testo ed esposto al pubblico per essere osservato. La fortezza consiste nell’affrontare i pericoli e sopportare le fatiche. Sue parti sono: la magnanimità, la fiducia, la pazienza, la perseveranza. La magnanimità è la progettazione e l’attuazione di grandi e nobili imprese con ampia e splendida disposizione di animo. La fiducia è la virtù per la quale, nelle cose grandi ed oneste, l’animo confida molto in se stesso con ferma speranza. La pazienza è la sopportazione volontaria e costante delle cose ardue e difficili, per amore dell’onestà e dell’utilità. La perseveranza è la persistenza stabile e continua di un proposito ben ponderato. La temperanza è il dominio fermo e moderato della ragione sulle passioni e sugli altri moti sregolati dell’animo. Sue parti sono: la continenza, la clemenza, la modestia. Mediante la continenza la cupidigia è governata dalla ragione. Mediante la clemenza gli animi, sedotti ed eccitati sfrenatamente dall’odio contro qualcuno, sono moderati dalla serenità. Mediante la modestia il pudore decoroso si guadagna una limpida e solida autorità ".
2. " Tutte queste virtù sono da ricercarsi per se stesse, senza ricerca di qualche vantaggio. Non rientra nel nostro proposito la dimostrazione di questa affermazione, né conviene alla brevità dell’insegnamento. Sono inoltre da evitarsi per se stessi non soltanto i vizi che sono loro contrari, come l’ignavia alla fortezza e l’ingiustizia alla giustizia, ma anche quelli che sembrano simili e vicinissimi alla virtù, mentre sono molto distanti. Così la diffidenza si oppone alla fiducia e per questo è un vizio; l’audacia invece non è contraria ma le è affine e vicina, eppure anch’essa è un vizio. Per ogni virtù si scopre così un vizio affine o già definito con un nome preciso, come l’audacia vicina alla fiducia e l’ostinazione alla perseveranza, la superstizione prossima alla religione, oppure senza una denominazione specifica. In quanto contrari alle cose buone, si collocano tutti questi vizi tra le cose da evitare. Abbiamo dunque detto abbastanza di quel genere di onestà che si ricerca integralmente per se stessa. Ora sembra doveroso trattare del genere a cui si aggiunge anche l’utilità, e che tuttavia chiamiamo onesto ".
3. " Molte sono le cose che ci attirano sia per il loro pregio che per il loro vantaggio. In questa serie si trovano la gloria, la dignità, la grandezza, l’amicizia. La gloria è la reputazione abituale e lodevole di qualcuno. La dignità è l’autorità onesta di qualcuno, meritevole di rispetto, onore e riverenza. La grandezza è la grande disponibilità di potenza o di maestà o di mezzi diversi. L’amicizia è la benevolenza verso qualcuno, che si ama per se stesso e, da parte sua, corrisponde con identico volere. Poiché noi qui trattiamo di pubblici affari, aggiungiamo all’amicizia i frutti, perché appaia desiderabile anche in vista di questi, e così non ci riprendano coloro i quali ritengono che noi parliamo genericamente dell’amicizia. Anche se vi sono alcuni che credono che l’amicizia si deve ricercare solo in vista dell’utilità, vi sono che affermano che sia da ricercarsi per se stessa e altri ancora che la ricercano tanto per se stessa quanto per l’utilità. Quale di queste opinioni sia la più vera, sarà esaminato altrove ".
32. - PUÒ UNO INTENDERE UNA COSA MEGLIO DI UN ALTRO? E LA
COMPRENSIONE DI QUESTA COSA PUÒ CRESCERE ALL’INFINITO?
Chiunque intende una cosa diversamente da quella che è, si sbaglia; e chiunque si sbaglia non capisce dove sbaglia. Chiunque pertanto intende una cosa diversamente da quella che è, non la capisce. Dunque non si può comprendere nulla se non così com’è. Capita anche a noi di capire una cosa non diversamente da quella che è, oppure di non capire assolutamente nulla, perché non la s’intende così com’è. Non c’è dubbio pertanto che esista un’intelligenza perfetta, di cui non ci può essere un’altra più eccellente. Di conseguenza non si può procedere all’infinito nella conoscenza di una cosa, e neppure uno può comprenderla meglio di un altro.
33. - IL TIMORE
Nessuno dubita che l’unico motivo del timore sia il pensiero di perdere quello che amiamo dopo averlo conquistato o di non ottenere quello che si è desiderato. Perciò chiunque sarà capace di apprezzare e possedere questa stessa mancanza di timore, che timore potrà mai avere di perdere questa condizione? Poiché noi temiamo di perdere molte delle cose che amiamo e possediamo, le custodiamo con timore. Nessuno però può con la paura custodire la libertà dal timore. Ugualmente chi desidera non avere paura, anche se non vi è ancora giunto ma spera di arrivarvi, non deve temere di non conseguirlo. Con questo timore infatti non si teme altro che lo stesso timore. Invero ogni timore è fuga da qualcosa, ma nessuna cosa fugge da se stessa. Dunque non si teme il timore. Se poi qualcuno ritiene che è improprio dire che il timore teme qualcosa, poiché è piuttosto l’animo a temere a causa del timore, faccia attenzione a una cosa di facile comprensione: non c’è timore se non di un male futuro o imminente. È necessario però che chi teme fugga qualcosa; chi invece ha paura di temere si pone in una situazione più che assurda, perché fuggendo ritrova le stesse cose che fugge. Poiché infatti non si teme se non che accada qualcosa di male, temere che capiti di aver paura non è altro che abbracciare ciò che si respinge. Se la cosa è contraddittoria, e lo è, non teme assolutamente chi non desidera altro che non avere paura. Pertanto nessuno può desiderare solo questo, senza ottenerlo. Se poi debba desiderarsi solo questo, è un’altra questione. Chi non è paralizzato dal timore, non è sconvolto dalla cupidigia, né tormentato dalla tristezza, né sballottato dalla gioia frivola e sfrenata. Se infatti è preso dalla cupidigia - la quale non è altro che la brama delle cose che passano - temerà necessariamente o di perderle una volta ottenute o di non riuscire ad ottenerle. Se invece non ha paura, allora non è bramoso. Ugualmente se è angustiato dal dolore, necessariamente è anche agitato dalla paura, poiché l’angoscia dei mali presenti è uguale alla paura dei mali imminenti. Ma se non ha paura, non ha neppure angoscia. Ugualmente se si rallegra sconsideratamente, si rallegra di cose che può perdere, è dunque necessario che tema di perderle. Ma se non ha alcun timore, non si rallegra affatto sconsideratamente.
34. - NON SI DEVE DESIDERARE ALTRO CHE ESSERE LIBERATI DALLA PAURA
Se il non avere paura è un vizio, non bisogna desiderarlo. Ma nessuno pienamente felice ha paura e nessuno al colmo della felicità si trova nel vizio. Non avere paura non è dunque un vizio. L’audacia invece è un vizio. Non segue però che sia audace chiunque non ha paura, mentre chiunque è audace non ha paura. Un cadavere non ha paura. Poiché l’assenza di timore è comune a chi è al colmo della felicità, all’audace e al cadavere - ma chi è pienamente felice non teme per serenità d’animo, l’audace per temerarietà, il cadavere per mancanza di ogni sensibilità -, si deve desiderare di essere liberi dalla paura, perché vogliamo essere felici; ma non si deve desiderare soltanto questo, poiché non vogliamo essere audaci e insensibili.
35. - CHE COSA SI DEVE AMARE
1. Poiché ogni essere senza vita non teme, nessuno ci convincerà a privarci della vita per essere liberi anche dal timore. Bisogna desiderare di vivere senza paura. Ma poiché la vita senza timore, se è anche sprovvista d’intelligenza, non è affatto desiderabile, bisogna desiderare di vivere senza timore ma con l’intelligenza. Bisogna amare solo questo o anche lo stesso amore? Sì, certamente, perché senza amore non si amano neppure quelle cose. Ma se l’amore è amato in vista di altre cose da amare, è un’imprecisione dire che sia amato. Amare infatti altro non è che desiderare una cosa per se stessa. Si deve dunque desiderare l’amore per se stesso, per il fatto che quando manca ciò che si ama, questa mancanza è una vera miseria? Poiché inoltre l’amore è uno slancio, e non c’è slancio se non verso qualcosa, quando cerchiamo che cosa sia da amare, cerchiamo quale sia l’oggetto verso cui conviene muoversi. Pertanto se bisogna amare l’amore, non ogni amore è certamente da amare. C’è infatti anche l’amore turpe, col quale l’animo si attacca alle cose inferiori a sé e che più propriamente si chiama cupidigia, ed è la radice di tutti i mali 5. Non si deve perciò amare ciò che può essere sottratto a chi ne ama e gode. Che cosa deve dunque amare l’amore se non ciò che non può venire a mancare finché si ama? Questa cosa non è altro che l’identità di avere e conoscere. Ora per l’oro e le altre cose materiali non è lo stesso avere e conoscere: perciò non si devono amare. E poiché si può amare una cosa, senza possederla, non solo tra le cose che non sono da amarsi, come la bellezza fisica, ma anche tra quelle da amarsi, come la felicità, e poiché si può possedere una cosa anche senza amarla, come i ceppi ai piedi, è giusto domandarsi se qualcuno può non amare, quando la possiede, cioè la conosce, una cosa per cui possedere e conoscere s’identificano. Ma poiché vediamo alcuni che, ad esempio, imparano i numeri solo per diventare ricchi o piacere agli uomini grazie a questa scienza e, una volta appresa, ad essa riferiscono quello stesso scopo che si erano prefissi quando li imparavano - per nessuna scienza il conoscere è diverso dal possedere - può succedere che qualcuno possegga qualcosa per cui conoscere e avere sono tutt’uno e tuttavia non la ami, sebbene non sia possibile possedere e conoscere perfettamente un bene che non si ama. Chi può infatti apprezzare la grandezza di un bene di cui non gode? E non ne gode, se non l’ama. Chi non ama, non possiede dunque ciò che si deve amare, anche se chi non possiede può amare. Pertanto nessuno che conosce la vita beata è infelice, perché, se si deve amarla, com’è giusto, conoscerla è uguale a possederla.
2. Stando così le cose, che cos’è la vita beata se non possedere, mediante la conoscenza, qualcosa di eterno? Eterno infatti è solo ciò di cui si è fermamente convinti che non può essere tolto a chi l’ama; l’eterno poi è lo stesso di possedere e conoscere. L’eternità è la più eccellente di tutte le cose, e perciò non possiamo averla se non per mezzo della facoltà che ci rende superiori, cioè la mente. Ora ciò che si possiede con la mente si ha conoscendolo, e nessun bene è conosciuto perfettamente se non si ama perfettamente. Ma come la mente da sola non può conoscere, così da sola non può amare. L’amore infatti è una tensione e noi vediamo che anche nelle altre parti dell’animo c’è un appetito il quale, se è in accordo con la mente e la ragione, permetterà di contemplare con la mente, in questa pace e tranquillità, ciò che è eterno. L’animo deve quindi amare anche con le altre sue parti questo bene così grande che bisogna conoscere con la mente. E poiché l’oggetto amato configura necessariamente di sé il soggetto che ama, avviene che l’eterno, amato così, renda eterna l’anima. Di conseguenza la vita beata è in definitiva la vita eterna. Ma qual è il bene eterno, che rende eterna l’anima, se non Dio? Ora l’amore delle cose da amarsi si chiama più propriamente carità o dilezione. Per questo bisogna considerare con tutte le forze della mente quel precetto tanto salutare: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente 6, e ciò che ha detto il Signore Gesù: Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo 7.
36. - OCCORRE ALIMENTARE LA CARITÀ
1. Chiamo carità l’amore delle cose che non sono spregevoli agli occhi di chi le ama. Esse sono l’eternità e colui che può amare la stessa eternità. L’amore fra Dio e l’animo, si chiama giustamente carità purissima e perfetta, se non si ama nient’altro; ci piace chiamarla anche dilezione. Ma quando Dio è amato più dell’anima, sicché l’uomo preferisce essere di Dio piuttosto che di se stesso, allora ha veramente a cuore e in sommo grado l’anima e di conseguenza il corpo, che curiamo spinti non da qualche istinto, ma prendendo solo ciò che è disponibile e offerto. Al contrario il veleno della carità è la brama di conseguire e possedere beni materiali; suo alimento è invece la diminuzione della cupidigia e sua perfezione l’eliminazione di ogni bramosia. Segno del suo progresso è la diminuzione del timore; segno della sua perfezione l’assenza di timore, poiché la cupidigia è la radice di tutti i mali 8, e la carità perfetta scaccia il timore 9. Chi dunque vuole alimentarla insista nell’eliminare la cupidigia. La cupidigia poi è la smania di conquistare e di ottenere beni materiali. L’inizio di questa eliminazione è il timore di Dio, l’unico che non si può temere senza amarlo. Si tende infatti alla sapienza e non c’è nulla di più vero del detto: Inizio della sapienza è il timore del Signore 10. Non c’è invero nessuno che non fugga maggiormente il dolore più di quanto desideri il piacere, giacché vediamo che anche le belve più feroci sono distolte dai piaceri più forti per paura dei dolori. Quando questo loro atteggiamento diventa un’abitudine, diciamo che sono domate e ammansite. Perciò, poiché l’uomo ha la ragione, che, quando viene asservita per deplorevole perversione alla cupidigia, suggerisce, per liberarsi dal timore degli uomini, di poter celare quanto è stato commesso ed escogita astutissimi inganni per coprire i peccati occulti, ne deriva che gli uomini, non ancora attratti dalla bellezza della virtù, se non vengono distolti dal peccato per mezzo delle pene, che sono giustamente predicate da uomini santi e amici di Dio, e se non riconoscono che ciò che nascondono agli uomini non si può nascondere a Dio, si dominano più difficilmente delle belve. Affinché temano Dio, bisogna convincerli che tutte le cose sono governate dalla divina Provvidenza, non tanto con ragionamenti - chi riesce a penetrarli può già scoprire la bellezza della virtù - quanto con esempi o recenti, se ve ne sono, o desunti dalla storia, specialmente da quella che, per disposizione della divina Provvidenza, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, ha ricevuto la suprema autorità della religione. Allo stesso tempo bisogna trattare anche delle pene dei peccati e dei premi delle buone opere.
2. Quando poi ci saremo persuasi che l’abitudine a non peccare è facile, mentre prima la si riteneva gravosa, s’incomincia a gustare la dolcezza della pietà e ad apprezzare la bellezza della virtù, sicché la libertà della carità prevale sulla schiavitù del timore. Bisogna allora persuadere i fedeli, una volta ricevuti i sacramenti della rigenerazione, i quali devono necessariamente scuoterli in profondità, sulla differenza che esiste tra i due uomini: il vecchio e il nuovo, l’esteriore e l’interiore, il terreno e il celeste, vale a dire tra colui che desidera i beni carnali e temporali e colui che desidera i beni spirituali ed eterni. Bisogna inoltre ammonirli a non attendere da Dio benefici labili e passeggeri, di cui possono abbondare anche i cattivi, ma quelli stabili ed eterni; per ottenerli occorre disprezzare assolutamente tutte le cose che in questo mondo sono ritenute beni o mali. A questo punto bisogna proporre l’esempio straordinario e unico dell’Uomo-Dio, il quale, pur mostrando con tanti miracoli il grande potere che aveva sulle cose, disprezzò le cose che gli ignoranti reputano grandi beni e sopportò quelle che ritengono grandi mali. E perché nessuno sia tanto esitante ad adottare questi atteggiamenti e questo insegnamento quanto più lo ammira, bisogna mostrare, con le sue promesse ed esortazioni e la moltitudine dei suoi imitatori, Apostoli, martiri e santi innumerevoli, che non c’è motivo di disperare di realizzarli.
3. Superate le lusinghe dei piaceri carnali, bisogna stare attenti che non s’insinui e si accresca la brama di piacere agli uomini o per qualche gesto sensazionale o per un’esagerata austerità e pazienza o per qualche elargizione o per il prestigio della scienza o dell’eloquenza. In questa classe rientra anche il desiderio degli onori. Contro tutte queste cose si proclami quanto è stato scritto a lode della carità e sulla vanità dell’orgoglio. Bisogna anche insegnare che è vergognoso desiderare di piacere a coloro che non vuoi imitare. Infatti o non sono buoni, e allora non c’è nulla di grande a essere lodati dai cattivi; o sono buoni e allora occorre imitarli. Ma coloro che sono buoni, lo sono per la virtù; la virtù però non desidera quello che è in potere degli altri. Chi dunque imita i buoni non ricerca la lode di un uomo; chi invece imita i cattivi non è degno di lode. Se poi vuoi piacere agli uomini per aiutarli ad amare Dio, allora non desideri più questo ma ben altro. Chi desidera piacere è ancora soggetto necessariamente al timore: prima perché, peccando di nascosto, non sia annoverato dal Signore tra gli ipocriti; poi perché, se desidera piacere per le buone azioni, dando la caccia a questa ricompensa, non perda quella che Dio darà.
4. Una volta vinta questa cupidigia, bisogna guardarsi dalla superbia. È difficile infatti che si degni di mettersi alla pari con gli altri, chi non desidera più di piacere loro e si ritiene pieno di virtù. Il timore è perciò ancora necessario, affinché non gli sia tolto anche quello che crede di avere 11 e, legato mani e piedi, sia gettato fuori nelle tenebre 12. Perciò il timore di Dio non solo incomincia, ma porta anche a perfezione la sapienza dell’uomo che ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stesso. Quali poi siano i pericoli e le difficoltà da temersi in questo cammino e quali i rimedi da adottare, è un’altra questione.
37. - COLUI CHE È SEMPRE NATO
Chi è sempre nato è migliore di chi nasce sempre. Chi nasce sempre, non è ancora nato; e se nasce sempre, non è mai nato e non sarà mai nato. Altro infatti è nascere, altro essere nato. Per questo non c’è mai un figlio, se non è mai nato. Ma un figlio, poiché è nato, è sempre figlio: quindi è sempre nato.
38. - LA STRUTTURA DELL’ANIMA
Una cosa è la natura, altra la scienza, altra l’attività: tutte queste cose sono però comprese in una sola anima, senza diversità di sostanza; una cosa inoltre è l’indole, altra la virtù, altra la tranquillità: anch’esse fanno parte di un’unica e medesima sostanza. L’anima infine è sostanzialmente diversa da Dio, ancorché creata da lui, mentre Dio è la santissima Trinità, che molti conoscono a parole e pochi in realtà. È necessario esaminare con somma diligenza ciò che dice il Signore Gesù: Nessuno viene a me se il Padre non l’avrà attirato 13; e: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me 14; e: Egli vi guiderà alla verità tutta intera 15.
39. - GLI ALIMENTI
Qual è quella cosa che ne prende un’altra, trasformandola? L’animale che si nutre. Qual è la cosa che viene presa e trasformata? Il cibo. Qual è la cosa che viene presa senza essere trasformata? La luce dagli occhi e il suono dagli orecchi. Ma l’anima riceve queste cose mediante il corpo. Che cosa invece ricava da se stessa e assimila a sé? Un’altra anima che, accogliendola nell’amicizia, rende simile a sé. E che cosa ricava da se stessa, senza trasformarla? La verità. Bisogna perciò comprendere quello che è stato detto a Pietro: Uccidi e mangia 16; e quello che è scritto nel Vangelo: E la vita era la luce degli uomini 17.
40. - UNICA È LA NATURA DELLE ANIME,
DIVERSE LE VOLONTÀ DEGLI UOMINI
Dalla diversità delle cose viste diverso è il desiderio delle anime; dalla diversità del desiderio diverso è il processo di apprendimento; dalla diversità del procedimento diversa è la consuetudine e dalla diversità della consuetudine diversa è la volontà. Ora l’ordine delle cose - certamente occulto, ma regolato dalla divina provvidenza - rende diverse le cose che vediamo. Non si deve però ritenere che vi siano diverse nature di anime, perché vi sono diverse volontà, poiché anche la volontà di una stessa anima varia secondo la diversità dei tempi. In verità un momento desidera essere ricca, un altro, disprezzate le ricchezze, desidera essere sapiente. Anche nello stesso desiderio di cose materiali allo stesso uomo una volta piace il commercio, un’altra volta il servizio militare.
41. - PERCHÉ DIO CREATORE NON HA FATTO TUTTE LE COSE UGUALI?
Se le cose fossero uguali, non esisterebbero tutte. Non ci sarebbero infatti tanti generi di cose, di cui è costituito l’universo, che contiene le creature, dalle prime alle seconde fino alle ultime, in ordine gerarchico. Quando si dice tutto, s’intende proprio questo.
42. - IN CHE MODO CRISTO È STATO NEL SENO MATERNO E IN CIELO?
Come la parola dell’uomo che, pur udita da molti, ciascuno sente tutta intera.
43. - PERCHÉ IL FIGLIO DI DIO SI È MANIFESTATO NELL’UOMO
E LO SPIRITO SANTO SOTTO FORMA DI COLOMBA?
Il primo è venuto per offrire agli uomini un modello di vita, il secondo è apparso per indicare lo stesso dono a cui si arriva, vivendo bene. Le due manifestazioni sono avvenute visibilmente a motivo degli uomini carnali che, mediante i gradini dei sacramenti, devono essere portati dalle realtà che si vedono con gli occhi del corpo a quelle che si colgono con la mente. Anche le parole infatti risuonano e passano, ma la realtà significata dalle parole, quando nel discorso si esprime qualcosa di divino ed eterno, non passa allo stesso modo.
44. - PERCHÉ IL SIGNORE GESÙ CRISTO È VENUTO TANTO TARDI
E NON SUBITO DOPO IL PECCATO DELL’UOMO?
Tutto ciò che è bello proviene dalla somma bellezza, che è Dio; la bellezza temporale invece risulta dalle cose che vanno e vengono. Ogni singola età, dall’infanzia alla vecchiaia, ha in ogni uomo la sua bellezza. Come sarebbe assurdo volere che nell’uomo soggetto al tempo ci fosse solo l’età giovanile - resterebbe infatti privo delle altre bellezze che hanno il proprio posto ed ordine nelle varie età -, così è assurdo desiderare una sola età per tutto il genere umano. Anche il genere umano, come il singolo uomo, ha infatti le sue età. Era perciò opportuno che il Maestro, al cui esempio l’umanità era educata alla migliore condotta, venisse dal cielo nell’età della giovinezza. A questo si riferisce l’Apostolo quando afferma che erano come bambini sotto la custodia della legge, come sotto un pedagogo 18, finché non fosse venuto colui al quale erano riservati e che era stato promesso dai Profeti. Altro è il modo di agire della divina Provvidenza con i singoli, quasi a titolo privato, altro il modo di occuparsi, quasi pubblicamente, di tutto il genere umano. Infatti tutti gli individui, che hanno raggiunto la piena sapienza, sono stati illuminati dalla medesima verità nella misura confacente alle rispettive età. E perché il popolo divenisse sapiente di questa verità, l’umanità fu assunta [dal Verbo] nell’età più conveniente al genere umano.
45. - CONTRO GLI ASTROLOGI
1. Gli antichi non chiamavano matematici quelli che oggi si chiamano così, ma quelli che calcolavano la misura del tempo col movimento del cielo e delle stelle. Di costoro si parla molto giustamente nelle Sacre Scritture: Neppure costoro sono scusabili, perché se tanto poterono sapere da scrutare l’universo, come mai non ne hanno trovato più facilmente il Signore? 19 La mente umana infatti, che giudica le cose visibili, può costatare di essere migliore di tutte le cose visibili. Riconoscendo tuttavia di essere mutevole a causa dei regressi e progressi nella sapienza, scopre al di sopra di sé una verità immutabile. Aderendo alla verità, come sta scritto: A te si stringe l’anima mia 20, diventa beata, perché scopre nel proprio intimo anche il Creatore e Signore di tutte le cose visibili, senza bisogno di cercare al di fuori le cose visibili, fossero pure celesti. Queste poi o non si trovano o si trovano con grande fatica e senza utilità, a meno che dalla bellezza delle cose esteriori non si trovi l’artefice che sta dentro. Egli prima produce le bellezze superiori dell’anima e poi quelle inferiori del corpo.
2. Ma contro coloro che oggi si chiamano matematici, che pretendono di sottomettere le nostre azioni ai corpi celesti, di venderci alle stelle e di riscuotere da noi il prezzo stesso col quale siamo venduti, non si può dire nulla più esattamente e brevemente di questo: non rispondono se non dopo aver consultato le costellazioni. Essi dicono che nelle costellazioni si distinguono delle parti: sono le trecentosessanta che conta lo zodiaco. Il movimento del cielo ne percorre quindici in una sola ora, sicché lo spazio di tempo in cui si originano quindici gradi, equivale ad un’ora. Ogni grado consta di sessanta minuti. Non trovano però i secondi nelle costellazioni, da cui pretendono di predire il futuro. Il concepimento dei gemelli, che si attua con una sola unione, come attestano i medici, la cui scienza è molto più sicura ed evidente, avviene in un tempo così rapido da non oltrepassare due secondi. Donde deriva allora nei gemelli tanta diversità di atti, di eventi e di volontà, dato che sono stati concepiti sotto la stessa costellazione e all’astrologo è offerta per entrambi una sola costellazione, come se si trattasse di un sol uomo? Se invece vogliono attenersi alle costellazioni della nascita, vengono confutati dagli stessi gemelli, che il più delle volte vengono alla luce l’uno dopo l’altro a intervalli di tempo riconducibili a secondi, di cui essi non vogliono e non possono discutere a proposito di costellazioni. Si dice che hanno predetto molte cose vere, ma questo dipende dal fatto che gli uomini dimenticano le loro falsità ed errori. Unicamente preoccupati di quanto si accordava alle loro aspettative, dimenticano ciò che non corrispondeva e ricordano solo gli avvenimenti che capitano accidentalmente, non per arte divinatoria, del tutto inesistente, ma per qualche fortuita coincidenza. Se poi lo vogliono attribuire alla loro abilità, dicano pure che possiedono l’arte divinatoria anche le pergamene inanimate contenenti scritti, da cui il più delle volte si tira la sorte a piacimento. Se dunque dai codici, senz’arte né parte, spesso esce un versetto che predice il futuro, che c’è di strano se anche dall’animo di chi parla esca, non per abilità ma per caso, una qualche predizione delle cose future?
46. - LE IDEE
1. Si dice che Platone sia stato il primo a nominare le idee; non già nel senso che, prima di averlo introdotto, non esistesse il nome o non esistessero le stesse realtà, che egli ha chiamato idee, o non fossero intuite da alcuno; ma probabilmente alcuni le chiamavano con un nome e altri con un altro. È lecito infatti attribuire qualsiasi nome a una cosa conosciuta ma sprovvista di un nome di uso comune. Non è infatti verosimile che prima di Platone non ci sia stato alcun filosofo, oppure che questi non abbiano compreso ciò che Platone, come si è detto, chiama idee, qualunque cosa esse siano; la loro portata è così grande che nessuno può essere filosofo se non le ha intuite. È probabile che ci siano stati filosofi anche tra altri popoli, fuori della Grecia: lo conferma lo stesso Platone che non solo ha viaggiato per perfezionare la sapienza, ma lo ricorda anche nei suoi scritti. Non bisogna pertanto ritenere che essi, se vi sono stati, abbiano ignorato le idee, anche se probabilmente le chiamavano con un altro nome. Ma del nome abbiamo già detto abbastanza. Consideriamo la cosa in sé: dobbiamo esaminarla e conoscerla con la massima attenzione, lasciando che ognuno, per quanto concerne i termini, chiami come vuole la cosa che ha conosciuto.
2. Noi latini possiamo chiamare le idee o forme o specie, per mostrare che traduciamo parola per parola. Se invece le chiamiamo ragioni ci scostiamo sicuramente dall’interpretazione rigorosa, perché in greco le " ragioni " [rationes] si dicono , non idee. Ma se uno vuole usare questo termine, non si discosterà dalla realtà stessa. Le idee sono infatti forme primarie o ragioni stabili e immutabili delle cose: non essendo state formate, sono perciò eterne e sempre uguali a se stesse e sono contenute nell’intelligenza divina. Non hanno né origine né fine: anzi si dice che tutto ciò che può nascere e morire e tutto ciò che nasce e muore viene formato sul loro modello. Nessun’anima, eccetto la razionale, può contemplarle, mediante la sua parte più eccellente, cioè con la mente stessa e la ragione, come se le vedesse con la faccia o con il suo sguardo interiore e intelligibile. Non si deve tuttavia ritenere idonea a questa visione ogni e qualsiasi anima, ma solo quella che è santa e pura, quella cioè che ha l’occhio integro, sincero, sereno e assimilato alle realtà che desidera vedere, e con il quale le vede. Ora chi è religioso e formato alla vera religione, ancorché non possa ancora capire tali cose, oserà negare, anzi non confesserà piuttosto che tutte le cose esistenti, vale a dire che per esistere sono racchiuse nel loro genere da una propria natura, non siano state create da Dio? E che tutti i viventi vivano grazie a lui e che la conservazione universale delle cose e l’ordine stesso per cui le cose soggette a mutamento eseguono i loro cicli regolati dal tempo con precisa regolarità, non siano contenute e governate dalle leggi del sommo Dio? Ammesso e concesso tale principio, chi oserà affermare che Dio abbia tutto creato senza una ragione? Se questo non si può legittimamente affermare né credere, è certo allora che tutto è stato creato secondo ragione; non però allo stesso modo l’uomo e il cavallo: pensarlo è sicuramente un’assurdità. Ogni cosa è stata dunque creata secondo proprie ragioni. Ma dove crediamo che si trovino queste ragioni ideali se non nella mente stessa del Creatore? Egli infatti non vedeva qualcosa esistente fuori di sé, da costituire il modello di ciò che creava: pensare questo infatti è sacrilego. Se dunque queste ragioni di tutte le cose da creare o create esistono nella mente divina, e se nella mente divina non può esistere nulla che non sia eterno ed immutabile - Platone chiama idee proprio queste ragioni fondamentali delle cose -, le idee non solo esistono, ma sono anche vere, perché sono eterne e rimangono per sempre eterne e immutabili. Partecipando di esse esiste tutto ciò che esiste, qualunque sia il modo di essere. Ma l’anima razionale supera tutte le cose create da Dio. Quando è pura, è vicina a Dio e nella misura in cui aderisce a lui per mezzo della carità, pervasa e illuminata da lui di quella luce intelligibile, contempla, non con gli occhi del corpo, ma con l’elemento specifico del suo essere per cui eccelle, cioè con la sua intelligenza, queste ragioni ideali, la cui visione la rende pienamente felice. Queste ragioni si possono chiamare, come si è detto, " idee, forme, specie, ragioni "; a molti è concesso di chiamarle a piacimento, a pochissimi però di comprenderne la vera realtà.
47. - SARÀ POSSIBILE UN GIORNO VEDERE I NOSTRI PENSIERI?
Si domanda abitualmente in che modo potremo vedere i nostri pensieri dopo la risurrezione e la trasformazione del corpo, promesse ai santi. L’argomentazione deve ricavarsi da quella parte del nostro corpo che è più luminosa. È infatti doveroso credere che i corpi angelici, che speriamo di avere un giorno, siano lucentissimi ed eterei. Se dunque al presente molti movimenti del nostro animo si rivelano dagli occhi, è probabile che nessun moto dell’animo resterà nascosto, quando tutto il corpo sarà etereo: al suo confronto questi occhi sono carne.
48. - LE COSE CREDIBILI
Tre sono i generi delle cose credibili. Alcune si credono sempre senza comprenderle mai: tale è la storia intera che passa in rassegna gli avvenimenti temporali e umani. Altre si comprendono subito appena si credono: tali sono tutti i ragionamenti umani sui numeri e le altre discipline. Altre invece prima sono credute e poi capite: tali sono quelle riguardanti le cose divine che sono comprese solo dai puri di cuore. Il che si verifica con l’osservanza dei comandamenti, che riguardano la vita virtuosa.
49. - PERCHÉ GLI ISRAELITI SACRIFICAVANO VISIBILMENTE
CON VITTIME DI ANIMALI?
Poiché vi sono anche realtà sacre spirituali, era opportuno che il popolo carnale ne celebrasse le immagini e che il popolo nuovo fosse prefigurato dalla schiavitù del vecchio. Si può riscontrare la differenza dei due popoli anche in ognuno di noi, poiché ciascuno deve portare dal seno materno il vecchio uomo, finché non giunga all’età giovanile, quando non è più costretto a giudicare secondo la carne, ma può volgersi volontariamente alle cose spirituali e rigenerarsi interiormente. Quello dunque che in un individuo bene educato avviene secondo l’ordine naturale e la disciplina, è assai bello che proporzionatamente si compia in tutto il genere umano e giunga a buon fine per la divina Provvidenza.
50. - L’UGUAGLIANZA DEL FIGLIO
Poiché Dio non poteva generare il Figlio migliore di sé (nulla infatti è migliore di Dio) lo ha generato uguale. Se infatti avesse voluto e non avesse potuto, sarebbe stato incapace; se avesse potuto e non avesse voluto, sarebbe stato invidioso. Ne consegue che ha generato il Figlio uguale a sé.
51. - L’UOMO CREATO AD IMMAGINE E SOMIGLIANZA DI DIO
1. La divina Scrittura parla di uomo esteriore e di uomo interiore. Li distingue così nettamente che l’Apostolo esclama: Se anche il nostro uomo esteriore si corrompe, quello interiore si rinnova di giorno in giorno 21. Si può pertanto domandare se uno solo dei due è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Ora è assurdo chiedere quale dei due, se uno solo è stato creato. Chi esita infatti ad ammettere che è quello che si rinnova piuttosto di quello che si corrompe? Se invece si tratta di entrambi, è un grosso problema. Infatti se l’uomo esteriore è Adamo e l’interiore Cristo, la cosa sarebbe vera per l’uno e per l’altro. Ma poiché Adamo non è rimasto buono com’era stato creato da Dio e, amando le cose carnali, è divenuto carnale, non è assurdo ritenere che la caduta è consistita nella perdita dell’immagine e somiglianza con Dio. Proprio per questo egli si rinnova ed è anche uomo interiore: come dunque è anche esteriore? Forse in rapporto al corpo, come l’interiore è tale in rapporto all’anima. La risurrezione e il rinnovamento è dell’uomo interiore, che ora avviene con la morte della vita precedente, quella del peccato, e con la rinascita a nuova vita, quella della giustizia. L’Apostolo richiama ancora i due uomini, parlando dell’uomo vecchio, di cui dobbiamo spogliarci, e del nuovo, di cui dobbiamo rivestirci 22. Definisce inoltre il primo: immagine dell’uomo di terra, perché è sotto l’influsso del peccato del primo uomo, che è Adamo, e l’altro: immagine dell’uomo celeste 23, perché è sotto l’influsso del secondo uomo, che è Gesù Cristo. Ma l’uomo esteriore, che ora si corrompe, sarà rinnovato dalla futura risurrezione, quando avrà saldato il debito della morte, che deve alla natura, secondo la legge stabilita nel paradiso [terrestre].
2. Che poi non sia sconveniente affermare che anche il corpo è stato creato a somiglianza di Dio, lo capisce facilmente chi presta diligente attenzione al detto: E Dio ha creato tutto molto bene 24. Nessuno infatti dubita che Egli stesso sia innanzitutto buono. In molti sensi si può dire che le cose sono simili a Dio: alcune perché sono state create con forza e sapienza - Egli infatti è potenza e sapienza increata -; altre perché hanno soltanto la vita - Egli infatti è il primo e sommo vivente -; altre perché esistono - Egli infatti è il primo e sommo essere -. Pertanto le cose che esistono solamente, senza avere né vita né conoscenza, hanno con lui una somiglianza minima e imperfetta. Nel loro ordine sono buone anch’esse, mentre Egli è buono al di sopra di tutto, e da lui procedono i beni. Tutte le creature che vivono, ma non hanno conoscenza, hanno una somiglianza un po’ più ampia. Infatti ciò che vive, esiste, ma non tutto ciò che esiste, vive. Quelle, infine, dotate di conoscenza sono tanto simili a lui, che nel creato nulla gli si avvicina di più. Ciò che partecipa della sapienza, ha infatti la vita e l’esistenza; ciò che vive ha necessariamente l’esistenza, ma non ha necessariamente la conoscenza. Poiché dunque l’uomo può essere partecipe della sapienza secondo l’uomo interiore, in questo è tanto somigliante a Dio da essere formato senza interposizione di alcuna natura. Per questo motivo niente è più congiunto a Dio. Infatti conosce, vive ed esiste: nulla è meglio di tale creatura.
3. Se per uomo esteriore s’intende quella vita in cui avvertiamo le sensazioni per mezzo dei notissimi cinque sensi, che abbiamo in comune con gli animali - anch’essa infatti è soggetta a corruzione a causa delle infermità sensibili procurate dalle avversità -, non senza ragione anche quest’uomo può dirsi partecipe della somiglianza divina, non soltanto perché vive, il che è anche degli animali, ma soprattutto perché può volgersi alla mente che lo dirige ed è illuminata dalla sapienza: cosa impossibile agli animali sprovvisti di ragione. Il corpo umano poi, unico tra i corpi degli animali terrestri, non è ricurvo sul ventre ma, essendo a vista, è eretto per guardare il cielo, che è il principio delle cose visibili. Sebbene sia chiaro che non vive per forza propria, ma per la presenza dell’anima, è buono non solo perché esiste e in quanto esiste, ma anche perché è strutturato in modo da essere più adatto a contemplare il cielo. Proprio per questo si può ben dire che è stato creato a somiglianza di Dio più del corpo degli altri animali. Tuttavia, poiché è improprio chiamare uomo un corpo senza vita, è più preciso intendere per uomo esteriore non il solo corpo né la sola vita sensitiva del corpo, ma l’uno e l’altra insieme.
4. Non è neppure sbagliato distinguere, da un lato, l’immagine e somiglianza di Dio, che è il Figlio, e dall’altro l’essere ad immagine e somiglianza di Dio, come diciamo dell’uomo creato. Vi sono poi alcuni che nell’espressione "a immagine e somiglianza" intendono due cose diverse: affermano infatti che, se si trattasse di una cosa sola, poteva bastare una sola parola. Essi ritengono che la mente è stata creata ad immagine, perché è formata dalla verità stessa senza l’intervento di qualche sostanza; si chiama anche spirito: non già lo Spirito Santo, consustanziale al Padre e al Figlio, ma lo spirito dell’uomo. L’Apostolo invero lo distingue così: Nessuno conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui e nessuno conosce i segreti di Dio se non lo Spirito di Dio 25. Dello spirito dell’uomo dice ancora: Egli salvi il vostro spirito, l’anima e il corpo 26. Anch’esso è stato fatto da Dio come tutte le altre creature. Infatti è scritto nei Proverbi: Sappi che il Signore conosce i cuori degli uomini, e chi ha formato lo spirito in tutti sa tutto 27. Questo spirito dunque, in cui è l’intelligenza della verità, è stato creato - nessuno ne dubita - ad immagine di Dio: aderisce infatti alla verità senza l’intervento di alcuna creatura. Affermano che le altre parti dell’uomo sono fatte "a somiglianza", perché ogni immagine è simile, ma non tutto ciò che è simile può anche dirsi immagine in senso proprio, ma solo abusivamente. In queste cose però bisogna essere cauti a non sostenere troppo ciò che si crede, nel rispetto assoluto di quella norma salutare di non attribuire alla sostanza di Dio nulla di ciò che si riferisce a qualsivoglia corpo esteso nello spazio. Infatti quello che in una parte è minore rispetto al tutto, non conviene alla dignità dell’anima: molto meno alla maestà di Dio!
52. - SULLE PAROLE: MI PENTO DI AVER CREATO L’UOMO 28
Le divine Scritture, per elevarci dal senso terreno ed umano a quello divino e celeste, si sono abbassate alle parole che usano abitualmente tra loro anche le persone più incolte. Perciò quegli uomini, mediante i quali ha parlato lo Spirito Santo, non hanno esitato ad impiegare molto opportunamente nei libri persino i nomi di quelle passioni alle quali è soggetta la nostra anima, e che i più sapienti ritengono assolutamente estranee a Dio. Poiché, ad esempio, è assai difficile che un uomo si vendichi senza adirarsi, hanno tuttavia ritenuto di chiamare "ira" la vendetta di Dio, che avviene indubbiamente senza questa passione. Allo stesso modo, poiché gli uomini erano soliti custodire gelosamente la castità della moglie, hanno chiamato "gelosia" di Dio la divina Provvidenza con la quale si comanda e si induce l’anima a non corrompersi e, in un certo senso, a non prostituirsi, seguendo i molti altri dèi. Ugualmente hanno chiamato "mano" di Dio la potenza con cui opera; "piedi" di Dio la forza con cui provvede alla salvaguardia e al governo di tutte le cose; "orecchie" e "occhi" di Dio la potenza con cui vede e conosce tutto; "volto" di Dio il potere con cui si manifesta e si fa conoscere; e così di seguito, allo stesso modo anche noi, a cui è diretto il discorso, siamo soliti operare con le mani, camminare con i piedi e andare dove ci porta l’animo, avvertire gli oggetti materiali con le orecchie, con gli occhi e con gli altri sensi del corpo e farci riconoscere dal volto. Ogni altra cosa si rapporta a questa specie di regola. Per questa ragione dunque, perché di solito non siamo disposti a cambiare una cosa iniziata e mutarla con un’altra, se non pentendoci, sebbene a chi guarda con mente serena appare chiaro che la Provvidenza divina tutto governa secondo un ordine perfettamente stabilito, tuttavia, con opportuno adattamento alla modesta intelligenza umana, si dice che una cosa cominciata ad essere e che non dura quanto si sperava che durasse, è stata tralasciata per una specie di pentimento di Dio.
53. - L’ORO E L’ARGENTO PRELEVATO AGLI EGIZIANI DAGLI ISRAELITI
1. Chiunque considera l’economia dei due Testamenti mirabilmente applicata, secondo l’opportunità dei tempi, alle età del genere umano, comprende a sufficienza, a mio parere, che cosa sia più conveniente alla prima età del genere umano e che cosa alla successiva. Dalla divina Provvidenza, che tutto regola armoniosamente, viene infatti così disposta l’intera serie delle generazioni, da Adamo sino alla fine dei tempi, come se si trattasse di un solo uomo che percorre il tratto della sua esistenza attraverso le età intermedie dalla fanciullezza alla vecchiaia. È perciò necessario che chi si applica alle divine Scritture con animo devoto sappia distinguere anche le gradazioni morali delle virtù per giungere alla più alta e perfetta virtù dell’uomo. Allora, nel riscontrare come talora ai meno maturi siano imposti piccoli precetti e ai più maturi precetti più grandi, pensando che più piccoli siano i peccati in confronto ai più grandi, si eviterà di ritenere sconveniente che Dio abbia imposto tali precetti agli uomini. Ora però è troppo lungo trattare dei gradi delle virtù: basta pertanto discutere di questa questione. Per quanto concerne l’inganno, la somma e perfetta virtù consiste nel non ingannare nessuno e mettere in pratica quello che è stato detto: Sia il vostro parlare: Sì, sì; no, no 29. Ma poiché questo comando è rivolto a coloro ai quali è già stato promesso il Regno dei cieli, ed è grande virtù adempiere questi precetti più grandi ai quali è riservato questo premio: Il Regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono 30, occorre domandarci per quali gradi si arriva a questa elevata perfezione. Sui gradini inferiori stanno sicuramente coloro ai quali veniva promesso un regno ancora terreno: essi, come bambini, si preparavano con tale promessa e, dopo aver nel frattempo ottenuto dall’unico Dio, Signore di tutte le cose, le gioie terrene a cui ancora aspiravano, progredendo ed avanzando spiritualmente avrebbero poi imparato a sperare anche le celesti. Com’è virtù somma e quasi divina non ingannare nessuno, così il vizio estremo è ingannare qualcuno. Per chi da questo vizio estremo tende a quella sublime virtù, il gradino è questo: non ingannare nessuno, né l’amico né l’estraneo, eccetto qualche volta il nemico. Per questo il detto del poeta è ormai diventato proverbiale: Inganno o valore? Chi se ne preoccupa in un nemico? 31 Ma poiché anche lo stesso nemico il più delle volte può venire ingannato ingiustamente, come quando si conclude un trattato di pace momentanea, che si chiama tregua, e la parola data non viene osservata, e altri simili casi; è molto più scusabile e più vicino a quella somma virtù colui che, sebbene voglia ingannare il nemico, tuttavia non lo inganna, se non per ordine divino. Solo Dio infatti sa, e certamente molto più chiaramente e veramente dell’uomo, quale pena o ricompensa meriti ciascuno.
2. Dio pertanto non inganna nessuno direttamente: è infatti Padre della Verità, la Verità stessa e lo Spirito di Verità. Distribuendo tuttavia a ciascuno ciò che si merita - poiché anche questo fa parte della giustizia e della verità -, si serve delle anime a seconda dei meriti e dei titoli corrispondenti ai loro gradi; e se uno merita di essere ingannato, non solo non lo inganna direttamente, ma neppure per mezzo di un uomo che ama nel modo giusto e persiste nell’osservare il detto: Sia il vostro parlare: Sì, sì; no, no 32; e neppure per mezzo di un angelo, cui non si addice il ruolo d’ingannatore. Si serve invece o di un uomo che non si è ancora liberato da simili passioni o di un angelo che, per la perfidia della sua volontà, è stato collocato negli infimi gradi allo scopo o di punire i peccatori o di provare e purificare quelli che rinascono secondo Dio. Leggiamo infatti di un re ingannato dal falso vaticinio di falsi profeti, e ciò che leggiamo conferma che il fatto non è accaduto senza disposizione divina, perché quegli meritava di essere ingannato in tal modo, non però mediante un angelo, cui non si addiceva di assumere l’ufficio di ingannare, ma mediante l’angelo della menzogna, il quale di buon grado e con gioia chiese che gli venisse affidato tale incarico 33. In alcuni passi delle Scritture è infatti esposto chiaramente ciò che il lettore diligente e devoto può intendere anche in altri passi dove è meno evidente. Il nostro Dio infatti, per mezzo dello Spirito Santo, ha disposto, a salvezza delle anime, i libri divini con l’intenzione non solo di nutrirci con le cose chiare, ma anche di addestrarci con quelle oscure. Per questa ineffabile e sublime disposizione delle cose, operata dalla Provvidenza, la legge naturale è stata in qualche modo trascritta nell’anima razionale sicché, nel corso stesso di questa vita e negli atteggiamenti terreni gli uomini conservano le immagini di questa disposizione. Da qui deriva che il giudice ritenga indegno e disdicevole alla sua persona di percuotere il condannato. Però per suo ordine il carnefice lo fa : questi, per suo interesse, si è assunto l’incarico di colpire il condannato in conformità alla legge, mentre per la sua crudeltà potrebbe colpire anche l’innocente. Infatti il giudice non fa questo né personalmente né per mezzo di un principe o di un avvocato o di un ufficiale, a cui non è conveniente affidare tale compito. Da qui deriva anche che ci serviamo di animali privi di ragione per fare quelle cose che è delittuoso far eseguire da uomini. Il ladro è senza dubbio meritevole di essere lacerato dai morsi; ma un uomo non fa questo di persona, né per mezzo del figlio o di un domestico o di un altro suo dipendente, ma per mezzo del cane, animale a cui si addice compiere tali cose secondo l’ordine della natura. Quando dunque si richiede che alcuni subiscano certe pene che ad altri non conviene infliggere, si ricorre a certi servizi intermedi a cui si impongono uffici corrispondenti, sicché la giustizia stessa, ricorrendo ad essi, non solo prescrive che ciascuno subisca la pena giustamente dovuta, ma determina anche le persone incaricate ad infliggerla. Poiché gli Egiziani erano meritevoli di essere ingannati e il popolo d’Israele, in quel periodo del genere umano, si trovava ancora in quel grado di moralità in cui non era disonorevole ingannare il nemico, avvenne che Dio ordinasse, o piuttosto permettesse, a motivo della loro cupidigia, di chiedere, senza restituirli, e di ottenere dagli Egiziani, come un prestito da restituire, i vasi d’oro e d’argento che gli amatori del regno terreno ancora bramavano 34. Dio ha voluto che questa fosse la giusta ricompensa di così lunghi stenti e fatiche, proporzionata al livello morale di quegli uomini, e la giusta punizione di coloro ai quali fece perdere meritatamente ciò che dovevano pagare. Dio non è dunque ingannatore; chi non avverte che il crederlo sarebbe empio e delittuoso? Al contrario egli regola con assoluta giustizia i meriti e le persone, operando direttamente le cose degne di lui e a lui solo convenienti, com’è l’illuminare le anime e renderle sapienti e felici, donando loro se stesso in godimento. Fa altre cose per mezzo di una creatura al suo servizio, disposta secondo i meriti da sapientissime leggi, comandando alcune e permettendo altre, perché la divina Provvidenza, come dice il Signore nel Vangelo, si estende e si occupa perfino della cura dei passeri, della bellezza dell’erba e anche del numero dei nostri capelli 35. Di questa Provvidenza è stato detto anche: Si estende da un confine all’altro con forza e dispone ogni cosa con dolcezza 36.
3. Che poi Dio punisca mediante il ministero delle anime sottomesse alle sue leggi e infligga a chi li merita giusti castighi, pur rimanendo imperturbabile, è stato espresso chiarissimamente: Condannare chi non merita il castigo lo consideri incompatibile con la tua potenza. La tua forza infatti è principio di giustizia; il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti. Mostri la forza a chi non crede nella tua onnipotenza e reprimi l’insolenza in coloro che la conoscono. Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza 37.
4. Il Signore mostra innanzitutto che nelle cose terrene esiste una gradualità verso la giustizia celeste, che viene comandata a coloro che sono già più rafforzati, quando dice: Se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? 38 Ancora lo stesso Signore dimostra che le anime sono istruite secondo il loro grado, quando dichiara: Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso 39. Anche l’Apostolo dice: Anch’io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; perché siete ancora carnali 40. Ciò che è stato fatto in costoro, in dipendenza del loro grado, sappiamo che è avvenuto per tutto il genere umano, quando precetti diversi, secondo l’opportunità dei tempi, furono imposti al popolo carnale e al popolo spirituale. Non c’è quindi da meravigliarsi se ad essi, che erano ancora nella condizione d’ingannare il nemico, fu comandato d’ingannare un nemico meritevole di essere ingannato. Infatti non erano ancora capaci di sentirsi dire: Amate i vostri nemici, ma erano simili a coloro cui conveniva dire soltanto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico 41. Non era ancora giunto il momento di mostrare come si dovesse largamente intendere il concetto di prossimo. Sotto il pedagogo c’è stata quindi una specie d’iniziazione, mentre il perfezionamento era riservato al maestro. Dio stesso tuttavia ha dato un pedagogo ai piccoli, cioè la Legge per mezzo di un suo servo, e un Maestro ai più grandi, cioè il Vangelo mediante il suo unico Figlio.
54. - SULLE PAROLE DEL SALMO:
IL MIO BENE È STARE VICINO A DIO 42
Tutto ciò che esiste o è immutabile oppure no. Ogni anima è migliore di qualunque corpo. Ogni principio di vita è infatti migliore di ciò che è vivificato. Nessuno poi dubita che il corpo è vivificato dall’anima e non l’anima dal corpo. Ciò che non è corpo e tuttavia è qualcosa o è anima o è qualcosa migliore di essa. Infatti niente è peggiore del corpo, perché anche se qualcuno dicesse la materia, da cui il corpo è tratto, è giusto dire che essa non è nulla, poiché è priva di ogni specificazione. Allo stesso modo tra il corpo e l’anima non si trova nulla di superiore al corpo e nulla d’inferiore all’anima. Se esistesse infatti una sostanza intermedia o sarebbe vivificata dall’anima o vivificherebbe l’anima o non farebbe niente; o vivificherebbe il corpo o sarebbe vivificata dal corpo o non farebbe niente. Ma tutto ciò che viene vivificato dall’anima è corpo; se invece qualcosa vivifica l’anima è migliore dell’anima. Allo stesso modo ciò da cui il corpo viene vivificato è l’anima: non c’è nulla invece ad essere vivificato dal corpo. Ciò che non è né l’uno né l’altra, cioè non è suscettibile di vita né è capace di dare vita, o è il nulla assoluto o è qualcosa migliore del corpo e dell’anima. Ma se in natura esista qualcosa del genere è un’altra questione. Ora la ragione è convinta che non esiste nulla tra il corpo e l’anima che sia superiore al corpo e inferiore all’anima. Noi chiamiamo Dio ciò che è migliore di ogni anima: a lui è unito chiunque lo comprende. Infatti ciò che si comprende è vero, ma non sempre è vero tutto ciò che si crede. Ora tutto ciò che è vero ed è separato dai sensi e dalla mente, può essere solamente creduto, ma non può essere sentito o compreso. Dunque l’essere che comprende Dio è a lui unito. Ora l’anima razionale comprende Dio. Capisce infatti che è immutabile e non subisce alcun mutamento. Invece il corpo, rispetto al tempo e allo spazio, e la stessa anima razionale, a volte sapiente e a volte stolta, subiscono mutamenti. Pertanto ciò che è immutabile è certamente migliore di ciò che non lo è. Nulla poi è migliore dell’anima razionale, eccetto Dio. Quando dunque l’anima comprende qualcosa d’immutabile, comprende senza dubbio Dio: è la stessa Verità. Poiché l’anima razionale si unisce a lui con l’intelligenza, e questo è bene per l’anima, a ragione si comprende che questo è il senso di quanto è stato detto: Il mio bene è stare vicino a Dio 43.
55. - SUL TESTO DEL CANTICO DEI CANTICI:
SESSANTA SONO LE REGINE, OTTANTA LE CONCUBINE
E LE FANCIULLE SENZA NUMERO 44
Il numero dieci può significare la scienza universale. Se lo si applica alle cose interiori e intelligibili, indicate dal numero sei, e lo si moltiplica per sei, si ha sessanta; se invece lo si applica alle cose terrene e corruttibili, che si possono indicare col numero otto, e si moltiplica per otto, si ha ottanta. Le regine raffigurano quindi le anime che regnano sulle cose intelligibili e spirituali. Le concubine invece sono quelle che ricevono una ricompensa terrena; di loro si dice: Hanno già ricevuto la loro ricompensa 45. Le fanciulle senza numero sono le anime che non possiedono una scienza definita e possono vacillare in ogni sorta di dottrina. Il numero, di cui si è detto, esprime la conferma certa e indubbia della scienza.
56. - PER LA COSTRUZIONE DEL TEMPIO
FURONO IMPIEGATI QUARANTASEI ANNI
Sei, nove, dodici, diciotto sommati insieme fanno quarantacinque. Aggiungi l’unità e diventeranno quarantasei: moltiplicato per sei fa duecentosettantasei. Ora si dice che il concepimento dell’uomo si svolge e completa così: nei primi sei giorni [il feto] ha la somiglianza, per così dire, del latte, nei nove successivi si cambia in sangue, nei dodici seguenti si consolida, nei rimanenti diciotto prende forma sino ai perfetti lineamenti di tutte le membra; quindi, per il tempo rimanente sino al parto, aumenta in grandezza. Si tratta dunque di quarantacinque giorni più uno, che indica la totalità, perché la somma di sei, nove, dodici e diciotto fa quarantacinque: aggiungendo uno, come si è detto, si ha quarantasei. Moltiplicati per sei, che è il numero iniziale di questa serie, si ottiene duecentosettantasei, cioè nove mesi e sei giorni, che vengono computati dall’ottavo giorno prima delle calende di aprile [25 marzo], giorno in cui si crede che il Signore sia stato concepito ed è lo stesso giorno della sua passione, sino all’ottavo giorno prima delle calende di gennaio [25 dicembre], in cui è nato. Pertanto non è assurdo affermare che il tempio, che indicava il suo corpo 46, è stato costruito in quarantasei anni, sicché tanti sono stati gli anni per edificare il tempio quanti sono stati i giorni per formare il corpo del Signore.
57. - I CENTOCINQUANTATRÉ PESCI 47
1. Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio 48. Se si contano dall’inizio si ha: uno, due, tre, quattro. Così pure: Capo della donna è l’uomo, capo dell’uomo è Cristo, e capo di Cristo è Dio 49. Se si contano allo stesso modo si ha ancora: uno, due, tre e quattro. Ora la somma di uno, due, tre e quattro fa dieci. Il numero dieci indica dunque perfettamente la scienza che presenta Dio creatore e la creatura da lui fatta. E quando un corpo perfetto e indistruttibile è sottomesso all’anima perfetta e indistruttibile, ed essa, a sua volta, è sottomessa a Cristo e Cristo a Dio, non in quanto dissimile o di altra natura, ma come Figlio al Padre: tutto questo è correttamente indicato dal numero dieci e si spera che sarà eternamente dopo la risurrezione del corpo. Forse proprio per questo gli operai della vigna ricevono come ricompensa un denaro 50. Come dunque la somma di uno, due, tre e quattro fa dieci, così uno, due, tre e quattro moltiplicati per quattro fanno quaranta.
2. Se poi il numero quattro indica a ragione il corpo, per i quattro ben noti elementi che lo compongono - il secco e l’umido, il freddo e il caldo - e se l’estensione dal punto alla lunghezza, dalla lunghezza alla larghezza, dalla larghezza all’altezza, consolida il corpo, di nuovo racchiuso dal numero quattro, non è assurdo ritenere che il numero quaranta indichi la disposizione temporale, realizzata per la nostra salvezza, quando il Signore ha assunto il corpo e si è degnato di apparire visibilmente agli uomini. Infatti uno, due, tre e quattro, che indicano il Creatore e la creatura, moltiplicati per quattro - cioè manifestati nel tempo mediante il corpo - fanno quaranta. La differenza poi tra quattro e quattro volte è questa: quattro esprime uno stato, quattro volte un movimento. Come dunque quattro si riferisce al corpo, così quattro volte si riferisce al tempo: è accennato il mistero compiuto corporalmente nel tempo, a motivo di coloro che erano invischiati nell’amore dei corpi e soggetti al tempo. Non è dunque un’incoerenza ritenere che il numero quaranta indica, come si è detto, la stessa economia temporale. Forse per questo motivo il Signore ha digiunato quaranta giorni 51, alludendo all’indigenza di questo secolo, che è sottoposto alla mutazione dei corpi e al tempo; e, dopo la risurrezione, è rimasto quaranta giorni con i discepoli mostrando loro, credo, questa stessa economia temporale che egli ha realizzato a nostra salvezza. Ora il numero quaranta, computate le parti che lo compongono, arriva al numero cinquanta, offrendo la stessa lezione, poiché le parti stesse che lo compongono sono uguali tra loro. Infatti l’azione corporale e visibile nel tempo, compiuta con giustizia, assicura all’uomo la perfezione: perfezione indicata, come si è detto, dal numero dieci. Anche il numero quaranta, sommando le sue parti uguali dà origine al numero dieci e così si arriva, come si è detto prima, al numero cinquanta. L’uno è contenuto quaranta volte nel numero quaranta, il due venti volte, il quattro dieci volte, il cinque otto volte, l’otto cinque volte, il dieci quattro volte, il venti due volte: sommati insieme fanno cinquanta. Nessun altro numero può infatti dividere in parti uguali il numero quaranta, all’infuori di questi che abbiamo elencati e che, sommati, abbiamo portato al numero cinquanta. Passati dunque quaranta giorni con i suoi discepoli dopo la risurrezione, cioè affidando loro quanto era stato compiuto per noi nel tempo, salì al cielo e, dieci giorni dopo, inviò lo Spirito Santo 52 per elevare spiritualmente, ad intendere le cose spirituali, coloro che avevano creduto alle cose visibili e temporali. Con quei dieci giorni, dopo i quali mandò lo Spirito Santo, indicava la stessa perfezione che è conferita dallo Spirito Santo col numero dieci, che il quaranta produce sommando le sue parti uguali e diventa cinquanta. Allo stesso modo nell’economia temporale, amministrata con giustizia, si giunge alla perfezione che indica il numero dieci, il quale, aggiunto al quaranta, fa cinquanta. Poiché dunque la perfezione, operata dallo Spirito Santo mentre camminiamo ancora nella carne, anche se non viviamo secondo la carne, è legata alla stessa economia temporale, sembra giusto ritenere che il numero cinquanta appartenga alla Chiesa ormai purificata e perfetta, che nella carità abbraccia la fede nell’economia temporale e la speranza della futura eternità, unendo insieme, per dire così, il numero quaranta al numero dieci. Ora questa Chiesa, a cui si applica il numero cinquanta, sia perché è composta da tre categorie di uomini - Giudei, Gentili e Cristiani carnali -, sia perché è consacrata dal sacramento della Trinità, moltiplicando per tre il numero che la indica si arriva a centocinquanta. Infatti cinquanta per tre fa centocinquanta. Se a questo aggiungi tre, poiché deve essere importante e prezioso ciò che viene purificato dal lavacro della rigenerazione nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo 53, si ha centocinquantatré. Questo è il numero di pesci che si trova, perché la rete è stata gettata dalla parte destra e raccoglie inoltre dei grossi pesci 54, cioè perfetti e atti al Regno dei cieli. Infatti la parabola della rete, non gettata dalla parte destra, ha raccolto insieme buoni e cattivi, che vengono separati sulla riva 55. Adesso infatti nelle reti dei precetti e dei sacramenti divini, nella Chiesa attuale, convivono insieme buoni e cattivi. La separazione avverrà alla fine del mondo, quasi alla fine del mare, cioè sulla riva. Dapprima i giusti, com’è scritto nell’Apocalisse, regnano nel tempo e poi per sempre in quella città, ivi descritta 56, dove, cessata alfine l’economia temporale, indicata dal numero quaranta, rimane il numero del denaro [= 10], che è la ricompensa che riceveranno i santi che lavorano nella vigna.
3. Se si considera questo numero, può anche riferirsi alla santità della Chiesa, fondata dal nostro Signore Gesù Cristo. Poiché la creatura consta del numero sette, dato che il tre si riferisce all’anima e il quattro al corpo, l’assunzione stessa dell’umanità si calcola sette volte tre. Il Padre ha infatti mandato il Figlio, e il Padre è nel Figlio, e per dono dello Spirito Santo è nato dalla Vergine. Padre, Figlio e Spirito Santo sono dunque tre. Sette volte indica invece la stessa umanità assunta nell’economia temporale per divenire eterna. La somma numerica è pertanto ventuno, cioè sette volte tre. Ora questa assunzione dell’umanità ha procurato la liberazione della Chiesa, di cui egli è il capo 57, e così la Chiesa stessa, a motivo dell’anima e del corpo, è ritemprata nello stesso numero sette. Si moltiplichi perciò ventuno per sette, a motivo di quelli che sono liberati dall’Uomo del Signore, e si ha centoquarantasette. Si aggiunga il numero sei, simbolo della perfezione, perché è costituito da parti che lo dividono esattamente, sicché non si trova nulla di meno e nulla di più: nella divisione infatti l’uno è compreso sei volte, il due tre volte, il tre due volte; addizionati insieme, uno, due e tre, fanno sei. Questo si può probabilmente applicare anche a quel mistero secondo il quale Dio ha terminato la sua opera il sesto giorno 58. Se dunque a centoquarantasette aggiungi sei, simbolo della perfezione, si ha centocinquantatré: è il numero dei pesci che si scopre dopo che, per ordine del Signore, le reti sono state gettate a destra, dove non si trovano peccatori, che stanno a sinistra.
58. - GIOVANNI BATTISTA
1. Considerando i testi evangelici che parlano di lui, Giovanni Battista può essere giustamente ritenuto, sulla base di numerose e verosimili testimonianze, la personificazione della profezia, tanto più che il Signore dice di lui: Più di un profeta 59. Egli dunque rappresenta tutta la profezia riguardante il Signore, che è stata proclamata dall’origine del genere umano sino al suo avvento. Il Vangelo, impersonato dal Signore stesso, era preannunziato dalla profezia: la sua predicazione si estende in tutto il mondo dopo la venuta stessa del Signore; la profezia invece declina dopo la realizzazione di ciò che preannunziava. Per questo il Signore proclama: La Legge e i Profeti fino a Giovanni Battista; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio 60. E lo stesso Giovanni dice: Egli deve crescere e io invece diminuire 61. Questo è stato simboleggiato anche dai giorni in cui sono nati e dalle morti che hanno subìto. Giovanni nasce infatti quando i giorni cominciano a declinare, il Signore nasce quando i giorni cominciano ad allungarsi. Quegli, quando viene ucciso, è sminuito del capo, questi invece è innalzato dalla croce. Quando dunque la profezia stessa, compiuta in Giovanni, mostra col dito che è presente colui che dall’inizio del genere umano aveva annunziato che sarebbe venuto, comincia a diminuire e da quel momento comincia a crescere la predicazione del regno di Dio. Ecco perché Giovanni battezzava per la conversione 62: la vecchia vita termina infatti con la conversione e di lì inizia la nuova.
2. Ora quelli che ricercano devotamente e sono aiutati da Dio in questa ricerca concludono che la profezia non è mai cessata, non solo in coloro che sono propriamente chiamati Profeti, ma neppure nella storia dell’Antico Testamento. Nondimeno essa si mostra più apertamente nelle figure più rappresentative di fatti, come il giusto Abele, che è ucciso dal fratello 63 e il Signore dai Giudei; l’arca di Noè, che è governata come la Chiesa nel diluvio del mondo 64; Isacco, che è condotto per essere sacrificato e un ariete tra le spine [immolato] al suo posto rappresenta il crocifisso 65; nei due figli di Abramo, uno dalla schiava e l’altro dalla libera, sono indicati i due Testamenti 66; nei gemelli Esaù e Giacobbe sono raffigurati i due popoli 67; Giuseppe che, dopo essere stato perseguitato dai fratelli, è onorato dagli stranieri 68, come il Signore che, perseguitato dai Giudei, è glorificato dai Gentili. È inutile ricordare ogni singolo fatto quando l’Apostolo così conclude dicendo: Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio e sono state scritte per noi per i quali è arrivata la fine dei tempi 69. Ora la fine dei tempi, come la vecchiaia del vecchio uomo - puoi considerare tutto il genere umano come un solo uomo -, è indicata dalla sesta età, in cui è venuto il Signore. Anche nell’uomo individuale sei sono infatti le età: infanzia, fanciullezza, adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia. La prima età del genere umano va da Adamo a Noè. La seconda da Noè ad Abramo; questi periodi sono evidentissimi e ben noti. La terza da Abramo a Davide: questa è infatti la divisione dell’evangelista Matteo 70. La quarta da Davide alla deportazione di Babilonia. La quinta dalla deportazione di Babilonia alla venuta del Signore. La sesta bisogna protrarla dalla venuta del Signore alla fine del mondo: in questa età, l’uomo esteriore, che si chiama anche uomo vecchio, deperisce per vecchiaia e l’interiore si rinnova di giorno in giorno 71. Allora inizia il riposo eterno, raffigurato dal sabato. A questo ben si accorda il fatto che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio al sesto giorno 72. Ora nessuno ignora che la vita umana, da quando si occupa di qualcosa, si nutre di conoscenza e di azione. Infatti l’attività senza conoscenza è temeraria e la conoscenza senza attività è sterile. Ma la prima vita dell’uomo, a cui giustamente non si affida alcun incarico, è assorbita dai cinque sensi del corpo; essi sono: vista, udito, olfatto, gusto, tatto. Per questo motivo le prime due età del genere umano includono dieci generazioni, come l’infanzia e la fanciullezza, con il raddoppio cioè del numero cinque, poiché la generazione si perpetua col concorso dei due sessi. Dieci sono dunque le generazioni da Adamo a Noè e altre dieci sino ad Abramo; abbiamo detto che queste due età sono l’infanzia e la fanciullezza del genere umano. L’adolescenza, la giovinezza e la maturità, cioè da Abramo a Davide, poi fino alla deportazione babilonese e successivamente fino alla venuta del Signore, sono rappresentate da quattordici generazioni: il numero sette è raddoppiato per il medesimo motivo dei due sessi, poiché al numero cinque, che sono i sensi del corpo, si sono aggiunte l’azione e la conoscenza. La vecchiaia infine occupa di solito uno spazio di tempo corrispondente a tutte le altre età. Poiché si dice che la vecchiaia comincia a sessant’anni e che la vita umana può arrivare fino a centoventi anni, è chiaro che la vecchiaia da sola può essere tanto lunga quanto tutte le età precedenti. È quindi incerto di quante generazioni sia composta l’ultima età del genere umano, che va dalla venuta del Signore sino alla fine del mondo. Dio ha voluto che ciò rimanesse utilmente nascosto, come sta scritto nel Vangelo 73 e come attesta l’Apostolo, dicendo che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte 74.
3. Ma nella sesta età il genere umano è stato visitato dall’umile venuta del Signore, come è precedentemente dimostrato dalle diverse generazioni. In questa visita cominciò a disvelarsi la profezia, che era rimasta nascosta nelle cinque età precedenti. Poiché Giovanni personificava la profezia, come si è già detto, nasce pertanto da genitori anziani, quasi a significare che quella profezia comincia a rivelarsi durante la vecchiaia del mondo. Inoltre, come sta scritto, sua madre rimane nascosta per cinque mesi: Elisabetta si tenne nascosta per cinque mesi 75. Al sesto mese viene visitata da Maria, la madre del Signore, e il bambino esulta nel grembo, simbolo della profezia che comincia a svelarsi sin dalla prima venuta del Signore, nella quale si è degnato mostrarsi nell’umiltà: ma come nel grembo, cioè non tanto chiaramente da essere riconosciuta da tutti in piena luce. Noi crediamo che questo avverrà alla seconda venuta del Signore, quando verrà nella gloria. Precursore di questa venuta sarà Elia, come della prima è stato Giovanni. Per questo il Signore dice: Elia è già venuto e gli uomini gli hanno fatto molte cose; e se lo volete sapere, egli è Giovanni Battista che deve venire 76. Con lo stesso spirito e con la stessa forza, come nell’ufficio dell’araldo che precede, uno è già venuto e l’altro verrà. Per questo, sotto l’ispirazione di cui fu ripieno il profeta suo padre, si dice che anche questo Giovanni sarà precursore del Signore con lo spirito e la forza di Elia 77. Trascorsi tre mesi con Elisabetta, Maria tornò a casa sua 78. Con questo numero mi sembrano indicati la fede nella Trinità e il battesimo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo col quale, mediante l’umile venuta del Signore, il genere umano viene purificato e preparato alla sua venuta futura nella gloria.
59. - LE DIECI VERGINI
1. Tra le parabole raccontate dal Signore quella riguardante le dieci vergini procura di solito molta fatica agli studiosi. E molti hanno sicuramente proposto numerose interpretazioni che non sono incompatibili con la fede. Bisogna però indagare accuratamente se l’interpretazione si adatti a tutte le sue parti. Ho letto anche in certi scritti, che si chiamano apocrifi, qualcosa che non è in contrasto con la fede cattolica; ma, considerando tutte le particolarità di questa parabola, mi è sembrato che non si accordino perfettamente al testo in questione. Non mi permetto tuttavia di dare un giudizio affrettato di tale interpretazione, perché non sia tanto la sua poca fedeltà a procurarmi difficoltà quanto la mia incapacità a scoprire la corrispondenza. Cercherò quindi di esporre brevemente e diligentemente, per quanto potrò, ciò che mi sembra opportuno ricavare da questo testo.
2. Nostro Signore, interrogato in segreto dai suoi discepoli sulla fine del mondo, tra i molti altri insegnamenti, raccontò anche questo: Allora il Regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; ma le stolte, prese le loro lampade, non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte. A mezzanotte però si levò un grido: " Ecco lo sposo, andategli incontro! ". Allora tutte quelle vergini si alzarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle sagge: " Dateci il vostro olio, perché le nostre lampade si spengono ". Ma le sagge risposero: " No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene ". Ora, mentre quelle andavano a comprarne, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze e la porta fu chiusa. Infine arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: " Signore, signore, aprici! ". Ma egli rispose: " In verità vi dico: Non vi conosco. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora " 79. Evidentemente le dieci vergini, di cui cinque sono ammesse e cinque escluse, indicano la separazione dei buoni e dei cattivi. Ma se il titolo verginale è degno di stima, perché è comune a quelle che vengono ammesse e a quelle che vengono escluse? Che cosa significa inoltre il numero cinque riferito ad entrambe? Che cosa significa l’olio?Sembra misterioso il fatto che le sapienti non lo diano a quelle che lo chiedono, dal momento che l’invidia non si addice a quelle che sono così perfette da essere accolte dallo sposo - è indubbio che sotto questo nome è indicato il Signore Gesù Cristo -, e che i misericordiosi devono essere pronti a dare ciò che hanno, secondo il precetto dello stesso Signore che dice: Da’ a chiunque ti chiede 80. Ma cos’è questa cosa che, distribuendola, potrebbe non bastare né alle une né alle altre? Queste domande soprattutto aumentano la difficoltà della questione, e anche se tutti gli altri punti sono considerati diligentemente, sicché tutto concordi in un solo senso coerente, e non si affermi in una parte ciò che viene contraddetto da un’altra, è necessaria una grande cautela.
3. Le cinque vergini, mi sembra, stanno pertanto ad indicare la continenza dalle attrattive carnali, suddivisa in cinque parti. Bisogna infatti frenare l’appetito dell’animo dal piacere della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto, del tatto. Ma poiché questa continenza si esercita in parte davanti a Dio, per piacere a lui nel gaudio interiore della coscienza, e in parte davanti agli uomini, solo per ricavare gloria umana, cinque sono dette sapienti e cinque stolte. Tutte però sono vergini, perché tutte continenti, sebbene il movente sia diverso. Le lampade portate in mano indicano le opere compiute mediante questa continenza. È stato detto infatti: Risplendano le vostre opere davanti agli uomini 81. Tutte invero presero le lampade e uscirono incontro allo sposo 82. Bisogna quindi ritenere che coloro di cui si tratta portano il nome di Cristo: non possono andare infatti incontro allo sposo, a Cristo, coloro che non sono cristiani. Ma le cinque stolte, prese le loro lampade, non presero con sé l’olio 83. Molti in realtà, sebbene si aspettino moltissimo dalla bontà di Cristo, pur vivendo nella continenza, non trovano gioia se non nelle lodi degli uomini. Non hanno dunque olio con sé. Infatti, a mio parere, la gioia è significata dall’olio: Dio, il tuo Dio - è detto - ti ha consacrato con olio di letizia 84. Chi poi non gioisce per il motivo di piacere interiormente a Dio, non ha olio con sé. Le prudenti invece, insieme alle lampade, presero con sé dell’olio nei loro vasi 85, cioè misero la gioia delle opere buone nel cuore e nella coscienza, secondo l’ammonimento dell’Apostolo: Ciascuno - egli dice - esamini se stesso e allora solo in se stesso e non in altri avrà vanto 86. Ma poiché lo sposo tardava, tutte si addormentarono 87: infatti in questo intervallo di tempo, finché alla venuta del Signore avverrà la risurrezione dei morti, le persone continenti dell’una e dell’altra classe, sia quelle che esultano davanti a Dio sia quelle che si compiacciono delle lodi degli uomini, muoiono. A mezzanotte, cioè quando nessuno lo sa o l’aspetta, come afferma lo stesso Signore: Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa 88, e l’Apostolo: Il giorno del Signore verrà come un ladro di notte 89, da ciò risulta che è totalmente ignoto quando egli verrà; Si levò un grido: " Ecco, viene lo sposo, andategli incontro " 90. In un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, tutti risorgeremo 91. Dunque tutte quelle vergini si alzarono e prepararono le loro lampade 92, si prepararono cioè a rendere conto delle loro azioni. Dobbiamo infatti comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo sia in bene che in male 93. E le stolte dissero alle sagge: " Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono " 94. Infatti le azioni di coloro che si ispirano all’altrui lode, svaniscono quando questa viene meno: è una consuetudine ricercare sempre ciò da cui l’animo suole trarre godimento. Essi vogliono inoltre avere presso Dio, che scruta il cuore, la testimonianza di uomini che non vedono i cuori. Ma cosa hanno risposto le sagge? No, che non abbia a mancare per noi e per voi 95. Ognuno infatti renderà conto di se stesso, e dinanzi a Dio, cui sono noti i segreti del cuore, nessuno è aiutato dalla testimonianza altrui. Ciascuno basterà a malapena a se stesso, perché la sua coscienza testimoni a suo favore. Chi potrà infatti gloriarsi di avere il cuore puro 96? Questo fa dire all’Apostolo: A me, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso 97. Per questo motivo, perché nessuno può assolutamente o solo a malapena essere giudice sincero di se stesso, come può giudicare un altro, quando nessuno sa cosa avviene in un uomo, se non lo spirito dell’uomo 98? Andate piuttosto dai venditori e compratevene. Non si deve credere che esse dessero un consiglio, ma che indirettamente ricordassero la loro negligenza. Vendono infatti olio gli adulatori i quali, lodando il falso o ciò che ignorano, inducono le anime in errore e, promettendo loro come a persone sciocche vani piaceri, ne ricavano qualche ricompensa o in alimenti o in denaro o in onori o in qualche altro vantaggio temporale, senza riflettere al detto: Quelli che vi proclamano felici, vi ingannano 99. È meglio essere rimproverati dal giusto che lodati dal peccatore. Mi percuota il giusto - è detto - con misericordia e mi rimproveri, ma l’olio del peccatore non profumi il mio capo 100. Andate dunque piuttosto dai venditori e compratevene, cioè vediamo ora che cosa vi giovino coloro che sono abituati a lodarvi e ad ingannarvi, affinché cerchiate gloria non davanti a Dio ma agli uomini. Mentre quelle andavano a comprare, arrivò lo sposo; cioè, mentre si volgevano alle esteriorità e cercavano la gioia nelle cose usuali, poiché non conoscevano le gioie interiori, arrivò colui che giudica. E quelle che erano pronte, cioè coloro alle quali la coscienza rendeva buona testimonianza davanti a Dio, entrarono con lui alle nozze 101, dove, vale a dire, l’anima pura, per essere fecondata, si unisce al Verbo di Dio, puro, perfetto ed eterno. E la porta fu chiusa, dopo aver accolto, cioè, coloro che sono stati trasformati nella vita angelica. Infatti - dice l’Apostolo - tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati 102. È stato chiuso l’ingresso del Regno dei cieli; dopo il giudizio infatti non c’è più spazio per le preghiere e i meriti. Infine vengono anche le altre vergini, dicendo: Signore, Signore, aprici! 103 Non è detto che abbiano comprato l’olio, e perciò bisogna intendere che, non rimanendo ormai alcuna gioia per le lodi degli altri, con grande miseria ed afflizione sono ritornate ad implorare Dio. Ma dopo il giudizio, grande è la severità di colui la cui ineffabile misericordia è stata dispensata prima del giudizio. Per questo egli risponde così: In verità vi dico: Non vi conosco 104, in conformità a quella regola, secondo cui la condotta di Dio, cioè la sapienza di Dio, non vuole che entrino nel suo gaudio coloro che sono stati visti compiere qualcosa secondo i suoi precetti, non per piacere a Dio ma agli uomini. Pertanto così conclude: Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora 105. Nessuno conosce il giorno e l’ora non solo di quell’ultimo momento, in cui verrà lo sposo, ma neppure della propria morte. Ma chi è preparato fino al sonno, cioè sino alla morte, che è retaggio di tutti, sarà trovato pronto anche quando a mezzanotte risuonerà la voce che sveglierà tutti.
4. Quanto poi si dice delle vergini che vanno incontro allo sposo, ritengo lo si debba intendere nel senso che colei, che è chiamata sposa, risulta dalle stesse vergini, come quando, raccogliendosi tutti i cristiani nella Chiesa, si dice che i figli corrono incontro alla madre, mentre quella che si chiama madre risulta dalla riunione degli stessi figli. In realtà la Chiesa ora è sposa ed è anche vergine pronta per le nozze, nel senso cioè che si mantiene illibata dalla corruzione del mondo. Il momento delle nozze sarà quando, eliminata tutta la mortalità, sarà ripiena dell’unione immortale: Vi ho fidanzato - dice l’Apostolo - a un solo sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo 106. Dice: Vi, e vergine, passando dal plurale al singolare. Si può dunque parlare di vergini e di una vergine. Mi sembra poi di avere già spiegato perché si parli di cinque. Ora però vediamo in enigma, allora invece faccia a faccia 107, ora parzialmente, allora pienamente. Il fatto poi di scoprire attualmente nelle Scritture, anche se in enigma e parzialmente, qualcosa che tuttavia è conforme alla fede cattolica, deriva da quel pegno che la Chiesa vergine ha ricevuto nell’umile venuta del suo sposo, a cui si congiungerà nell’ultima venuta, quando verrà nella gloria, e allora lo contemplerà faccia a faccia. Ci ha dato infatti in pegno lo Spirito Santo, come dice l’Apostolo 108. Questa esposizione quindi non offre nulla di certo, se non ciò che è conforme alla fede, né pregiudica altre che potrebbero essere anch’esse conformi alla fede.
60. - QUANTO AL GIORNO E ALL’ORA NESSUNO LO SA,
NEANCHE GLI ANGELI DEL CIELO E NEPPURE IL FIGLIO,
MA SOLO IL PADRE 109
Come si dice che Dio sa anche quando cerca di sapere - sta scritto infatti: Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se lo amate 110 -, così questa frase non vuol dire che il Signore non sa; ma perché gli uomini sappiano quanto siano progrediti nell’amore di Dio. Il che non si conosce pienamente se non nelle prove che capitano. E la stessa espressione: mette alla prova sta al posto di: permette che siate provati. Allo stesso modo quando si dice che non sa, significa o che disapprova, cioè non lo riconosce nei suoi precetti e insegnamenti, come sta scritto: Non vi conosco 111; o che ritiene utile ignorare ciò che è inutile sapere. Pertanto l’esatta interpretazione delle parole: Solo il Padre sa? vuol dire che lo fa sapere al Figlio; e neppure il Figlio sa, vuol dire che lascia gli uomini nell’ignoranza, perché non giova loro sapere ciò che è inutile.
61. - SUL BRANO EVANGELICO CHE NARRA
DELLA FOLLA SFAMATA DAL SIGNORE SUL MONTE CON CINQUE PANI
1. I cinque pani di orzo, con i quali il Signore ha sfamato la folla sul monte, significano la legge antica, sia perché è stata data ad uomini non ancora spirituali ma ancora carnali, schiavi cioè dei cinque sensi del corpo - la stessa folla era inoltre di cinquemila uomini 112 -, sia perché la stessa legge era stata promulgata per mezzo di Mosè; Mosè ha scritto infatti cinque libri. I pani poi erano di orzo: e questo può a ragione indicare o la stessa legge, che era stata data in modo che l’alimento vitale fosse rivestito da misteriosi segni materiali - infatti il grano d’orzo è ricoperto di pula assai consistente -, o lo stesso popolo non ancora liberato dai desideri carnali che, come pula, aderivano al suo cuore. Cioè non era ancora circonciso di cuore: nonostante la prova della tribolazione durante la marcia di quarant’anni nel deserto non aveva deposto, schiarita la mente, i veli carnali, come neppure l’orzo viene liberato dall’involucro della pula con la trebbiatura dell’aia. Conveniva pertanto dare tale legge a quel popolo.
2. I due pesci poi, che davano al pane un sapore gradevole, sembrano indicare le due autorità, la regale cioè e la sacerdotale, alle quali apparteneva anche la famosa unzione sacra, che governavano quel popolo, il quale ne accettava la guida delle riunioni. Era loro dovere non lasciarsi mai abbattere e corrompere dai tumulti e dalle agitazioni popolari; sedare frequentemente le violente contestazioni della folla, simili a onde minacciose, e talvolta accondiscendere loro, mantenendo la propria integrità: nel governo turbinoso del popolo si trovavano come pesci nel mare in tempesta. Tuttavia queste due autorità prefiguravano nostro Signore, perché egli da solo ha esercitato i due poteri e li ha perfettamente attuati, non in senso figurato. Infatti il Signore Gesù Cristo è anche nostro re: ci ha mostrato con l’esempio come lottare e vincere portando nella carne mortale i nostri peccati, senza cedere mai agli assalti seducenti e intimidatori dell’avversario, che deponendo infine la propria carne, spogliando risolutamente i principati e le potestà e trionfando su di essi nella propria persona 113. Sotto la sua guida noi veniamo perciò liberati dai pesi e dalle fatiche di questa nostra peregrinazione, come dall’Egitto, e a noi, che scampiamo, col sacramento del battesimo sono tolti i peccati che ci perseguitano. E poiché abbiamo la speranza della sua promessa, che ancora non vediamo, girovaghiamo come per luoghi deserti, confortati dalla parola di Dio nelle Sacre Scritture, come gli Ebrei dalla manna del cielo. Ancora sotto la sua guida speriamo di poter giungere alla Gerusalemme del cielo, come alla terra promessa, e rimanervi eternamente sotto il suo governo e la sua custodia. In questo modo il nostro Signore Gesù Cristo si manifesta nostro re. Egli è anche nostro sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedech 114; si è offerto in olocausto per i nostri peccati e ha raccomandato di celebrare il rinnovamento del suo sacrificio in memoria della sua passione, sicché quello che Melchisedech ha offerto a Dio 115 noi ora lo vediamo offerto per il mondo nella Chiesa di Cristo. Avendo dunque il nostro re preso su di sé i nostri peccati per mostrare come lottare e vincere, l’evangelista Matteo ha indicato il carico su di sé dei nostri peccati e l’autorità regale, iniziando la sua genealogia secondo la carne da Abramo, che è il padre del popolo fedele, ed enumerando per via discendente la successione della prole è arrivato sino a Davide, sotto il quale il regno si mostra consolidato con grande evidenza. Poi attraverso Salomone, nato da colei con cui suo padre aveva peccato, ha proseguito la discendenza regale conducendola fino alla nascita del Signore 116. Invece l’altro evangelista Luca, che si è preso anch’egli l’incarico di descrivere la genealogia del Signore secondo la carne, ma nella linea sacerdotale cui spetta la purificazione e l’eliminazione dei peccati, inizia ad esporre gradualmente l’origine dei suoi antenati non dal principio del libro, come Matteo, ma dal punto in cui narra il battesimo di Gesù, dove ha prefigurato la purificazione dei nostri peccati. Egli non descrive le generazioni per via discendente come Matteo, che lo mostrava mentre scendeva ad addossarsi i peccati, ma in via ascendente, come per indicare che saliva dopo aver distrutto i peccati, senza neppure nominare gli antenati elencati da quello 117. Diversa infatti era l’origine sacerdotale: tramite uno dei figli di Davide, che secondo l’usanza aveva tirato a sorte in matrimonio un donna della tribù sacerdotale, era successo che Maria fosse imparentata con entrambe le tribù, cioè la regale e la sacerdotale. Quando infatti Giuseppe e Maria furono censiti, è stato notato che erano della casa e della famiglia di Davide 118. Anche Elisabetta, ricordata come parente di Maria, era di casta sacerdotale 119. E come Matteo, presentando Cristo re che scende per addossarsi i nostri peccati, lo fa discendere da Davide mediante Salomone, perché Salomone era nato da quella donna con cui Davide aveva peccato, così Luca, presentando Cristo sacerdote che ascende al cielo dopo aver distrutto i peccati, risale a Davide attraverso Nathan. Il profeta Nathan era stato inviato perché Davide, corretto da lui, ottenesse mediante la penitenza il perdono di quello stesso peccato 120. Per questo Luca, dopo aver citato il nome di Davide, non differisce da Matteo nei nomi delle generazioni. Egli li nomina infatti risalendo da Davide ad Abramo, e quegli discendendo da Abramo a Davide, poiché da Davide quella genealogia è distinta in due famiglie, la regale e la sacerdotale. Di queste due famiglie, come si è detto, Matteo per via discendente segue la regale e Luca per via ascendente la sacerdotale. E così il Signore nostro Gesù Cristo, nostro re e sacerdote, discenderebbe dalla stirpe sacerdotale, senza essere peraltro della stirpe sacerdotale, cioè della tribù di Levi, ma sarebbe della tribù di Giuda, cioè di Davide; di questa tribù nessuno serve all’altare. Per questo motivo egli è detto principalmente figlio di Davide secondo la carne, perché tanto Luca, per via ascendente, quanto Matteo, per via discendente, si sono incontrati in Davide. Era infatti conveniente che colui che avrebbe abolito i sacrifici, che si offrivano nel sacerdozio levitico secondo l’ordine di Aronne, non fosse della tribù di Levi, perché la remissione dei peccati, che il Signore aveva compiuto con l’offerta del suo olocausto, prefigurato nell’antico sacerdozio, non sembrasse una prerogativa di questa tribù né di questo sacerdozio che nel tempo adombrava quello futuro. Nella Chiesa poi ha lasciato l’immagine di quell’olocausto da celebrare in memoria della sua passione, per essere sacerdote in eterno non secondo l’ordine di Aronne, ma secondo l’ordine di Melchisedech 121. Si potrebbe approfondire ancora più diligentemente il mistero di questo fatto. Ma riguardo ai due pesci, in cui, come abbiamo detto, erano raffigurate le due personalità, la regale e la sacerdotale, basti quanto abbiamo esposto finora.
3. Ora quella turba, seduta sull’erba, indica che coloro, i quali avevano ricevuto l’Antico Testamento, erano stati posti in una speranza carnale, poiché veniva promesso loro un regno temporale e una Gerusalemme terrena: Ogni uomo è come l’erba e la gloria dell’uomo come un fiore del campo 122. Che poi con i resti dei frammenti siano state riempite dodici ceste di avanzi, indica che i discepoli del Signore, per i quali il numero dodici rappresenta la potestà, erano stati colmati dalla comprensione e spiegazione della stessa legge, che i Giudei avevano trascurato e abbandonato. Non c’era infatti ancora la Scrittura del Nuovo Testamento, quando il Signore, quasi spezzando e aprendo ciò che nella legge era duro e chiuso, saziò i discepoli e aprì loro, dopo la risurrezione, le antiche Scritture, cominciando da Mosè e da tutti i Profeti, spiegando loro in tutte le Scritture quanto li riguardava. Allora infatti due di loro lo riconobbero allo spezzare del pane 123.
4. Per questo motivo s’intende giustamente che il secondo pasto del popolo, che fu di sette pani, appartiene alla predicazione del Nuovo Testamento. Nessun evangelista ha affermato che questi pani fossero di orzo, come ha detto Giovanni di quei cinque pani. Dunque questo pasto di sette pani appartiene alla grazia della Chiesa che, come si sa, è nutrita dall’azione ben nota dei sette doni dello Spirito Santo. Ecco perché qui non è scritto che i pesci erano due, come nella vecchia legge dove solo due erano unti, il re e il sacerdote, ma pochi pesci, cioè coloro che per primi hanno creduto al Signore Gesù Cristo e sono stati unti nel suo nome, quindi mandati a predicare il Vangelo e ad affrontare il mare tempestoso di questo mondo, per essere ambasciatori del grande pesce, cioè di Cristo, come dice l’apostolo Paolo 124. In quella turba non c’erano cinquemila uomini, come l’altra che indica gli uomini carnali sottomessi alla legge, schiavi cioè dei cinque sensi del corpo, ma piuttosto quattromila; con questo numero sono indicati gli spirituali in forza delle quattro virtù dell’anima, con le quali si vive spiritualmente in questa vita: prudenza, temperanza, fortezza e giustizia. Di queste la prima è la conoscenza delle cose da desiderare e da evitare, la seconda è la moderazione della cupidigia dei piaceri materiali, la terza è la fermezza d’animo contro le avversità temporali, la quarta, che compenetra tutte le altre, è l’amore di Dio e del prossimo.
5. In verità è ricordato che là c’erano cinquemila uomini e qui quattromila, senza contare le donne e i bambini 125. Questo è detto, mi sembra, per farci capire che anche nel popolo dell’Antico Testamento c’erano alcuni incapaci di adempiere la giustizia che è secondo la legge. L’apostolo Paolo assicura di essersi comportato irreprensibilmente sotto questa giustizia 126; c’erano anche altri portati facilmente al culto degli idoli. Le due categorie, cioè la debolezza e l’errore, vengono rappresentate con i nomi di donne e di bambini. Il sesso femminile infatti è debole nell’attività e la fanciullezza è facile al gioco. Che cosa poi è più vicino al gioco dei bambini del culto degli idoli? A questo genere di superstizione si riferisce l’Apostolo quando dice: Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: " Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi " 127. Erano dunque simili alle donne coloro che, nelle fatiche dell’attesa per giungere alle promesse di Dio, senza perseverare virilmente, tentarono Dio; mentre erano simili ai fanciulli coloro che si sedettero a mangiare e a bere e si alzarono per divertirsi. Tuttavia non solo tra loro, ma anche tra il popolo del Nuovo Testamento, coloro che non perseverano nel formare l’uomo perfetto 128 sono da paragonare alle donne e ai bambini o per debolezza di forze o per leggerezza d’animo. Agli uni infatti è detto: A condizione di mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuta da principio 129; e agli altri: Non comportatevi da bambini nei giudizi, siate come bambini in quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi 130. Ecco perché costoro sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento non vengono computati, ma là si dice che c’erano cinquemila, e qui quattromila, senza contare le donne e i bambini 131.
6. È vero tuttavia che nei due casi, a motivo di Cristo stesso che spesso nelle Scritture è chiamato monte, i due popoli sono stati opportunamente saziati sul monte; qui però non ci si siede sull’erba ma per terra. Nel primo caso la grandezza di Cristo, a causa degli uomini carnali e della Gerusalemme terrena, è velata da speranze e desideri carnali; nel secondo invece, rimossa ogni cupidigia carnale, era il sostegno della speranza duratura, come la solidità dello stesso monte, a tenere insieme i convitati del Nuovo Testamento senza frapporre alcuna erba.
7. E poiché l’Apostolo molto giustamente dice: Prima però che venisse la fede, noi eravamo custoditi sotto la legge 132, anche il Signore sembra esprimere la stessa idea quando dice di quelli che avrebbe sfamato con cinque pani: Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare 133. Sotto queste parole essi sono raffigurati come da custodire, mentre i discepoli lo avevano pregato di rimandarli. Invece di questa moltitudine, che si riferisce ai sette pani, egli stesso ha dichiarato di sentire compassione, perché già da tre giorni lo seguivano digiuni. Infatti nella totalità delle età del genere umano, il terzo tempo è quello in cui è stata data la grazia della fede cristiana. Il primo precede la legge, il secondo è sotto la legge, il terzo è sotto la grazia. E poiché rimane ancora il quarto tempo, durante il quale giungeremo alla pace perfetta della celeste Gerusalemme, a cui tende chiunque crede rettamente in Cristo, per questo motivo il Signore dice di sfamare quella turba, perché non svenga lungo la strada. Infatti seco
ndo questa economia il Signore si è degnato apparire nell’umanità temporale e visibile e ci ha dato in pegno lo Spirito Santo, che ci rinvigorisce con l’azione dei suoi sette doni, a cui si aggiunge, come il sapore di pochi pesci, l’autorità apostolica : questa economia non fa dunque altro che permetterci di arrivare alla palma della suprema vocazione, senza che vengano meno le forze. Camminiamo infatti nella fede e non nella visione 134. Lo stesso Apostolo dice di non aver ancora conquistato il regno di Dio: Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta, verso la palma della suprema vocazione. Però al punto in cui siamo arrivati continuiamo a camminare 135. Rimanendo uniti nel terzo giorno al Signore e nutriti da lui, non verremo meno lungo la strada.
8. Anche in questo caso non fu possibile finire le provviste, ma rimasero degli avanzi. Riguardo al futuro non è stato detto invano: Credi che verrà il Figlio dell’uomo e troverà la fede sulla terra? 136 Io credo che sarà così a motivo delle donne e dei bambini. I frammenti avanzati riempirono tuttavia sette ceste: ad esse corrispondono le sette Chiese, descritte anche nel libro dell’Apocalisse 137, ossia tutti coloro che persevereranno sino alla fine. Colui infatti che ha detto: Credi che verrà il Figlio dell’uomo e troverà la fede sulla terra? ha voluto certamente indicare che al termine del convito si potevano lasciare e avanzare delle vivande; ma poiché ha detto anche: Chi persevererà sino alla fine sarà salvo 138, ha dichiarato che la Chiesa non sarebbe venuta meno: essa col numero sette riceve più abbondantemente gli stessi sette pani e li conserva con larghezza di cuore, che nelle ceste sembra designare la stessa perseveranza.
62. - SUL TESTO EVANGELICO:
GESÙ BATTEZZAVA PIÙ DI GIOVANNI,
SEBBENE NON FOSSE LUI A BATTEZZARE, MA I SUOI DISCEPOLI 139
Si può domandare se coloro, che sono stati battezzati al tempo in cui si dice che il Signore battezzava per mezzo dei suoi discepoli più gente di Giovanni, abbiano ricevuto lo Spirito Santo. In un altro passo del Vangelo si dice infatti: Lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato 140. Si può rispondere molto facilmente così che il Signore Gesù, il quale risuscitava anche i morti, poteva impedire che qualcuno di loro morisse finché, dopo la sua glorificazione, cioè la risurrezione dai morti e l’ascensione al cielo, non avessero ricevuto lo Spirito Santo. Ma mi viene in mente quel ladro a cui è stato detto: In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso 141. Costui non aveva neppure ricevuto il battesimo. Sebbene Cornelio e i pagani che con lui avevano creduto avessero ricevuto lo Spirito Santo prima ancora di essere battezzati 142, non vedo tuttavia come anche quel ladro abbia potuto dire senza lo Spirito Santo: Ricòrdati di me, Signore, quando entrerai nel tuo regno 143, quando l’Apostolo afferma: Nessuno può dire: " Signore Gesù ", se non nello Spirito Santo 144. Il Signore stesso ha mostrato il frutto della sua fede, dicendo: In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso. Come dunque per l’ineffabile potere e la giustizia di Dio sovrano è stato concesso il battesimo anche al ladro credente, e ciò che non era possibile ricevere nel corpo crocifisso veniva considerato ricevuto nell’animo libero, così anche lo Spirito Santo veniva dato segretamente prima della glorificazione del Signore. Dopo la manifestazione della sua divinità veniva invece conferito più apertamente. Anche questo è stato detto: Lo Spirito Santo non era ancora stato dato, vale a dire non era ancora apparso così chiaramente che tutti potessero affermare che era stato dato. Allo stesso modo anche il Signore non era stato ancora glorificato tra gli uomini, sebbene la sua eterna glorificazione non fosse mai venuta meno. Ugualmente la stessa venuta è detta manifestazione nella carne mortale. Venne infatti dove già si trovava, perché venne nella sua casa ed era in questo mondo e il mondo fu fatto per mezzo di lui 145. Come dunque per venuta del Signore s’intende la sua manifestazione corporale, anche se prima di questa manifestazione ha parlato in tutti i santi Profeti come Verbo di Dio e Sapienza di Dio, così anche la venuta dello Spirito Santo è la manifestazione dello Spirito Santo agli stessi occhi della carne, quando il fuoco fu visto dividersi su di loro ed essi cominciarono a parlare in lingue diverse 146. Se infatti lo Spirito Santo non era presente negli uomini prima della glorificazione visibile del Signore, come Davide avrebbe potuto dire: E non privarmi del tuo Santo Spirito 147? O come sarebbero stati riempiti Elisabetta e suo marito Zaccaria per profetare, e Anna e Simeone, che tutti, come sta scritto, ripieni di Spirito Santo hanno detto ciò che leggiamo nel Vangelo 148? Che poi Dio operi alcune cose segretamente e altre invece palesemente, per mezzo di creature visibili, appartiene all’economia della provvidenza, in virtù della quale tutte le azioni divine si svolgono secondo l’ordine e la stupenda varietà di luoghi e di tempi, senza che la stessa divinità sia racchiusa e si muova nello spazio, o si distenda e muti col tempo. Come dunque il Signore stesso aveva evidentemente in sé lo Spirito Santo nell’umanità che aveva assunto, quando venne da Giovanni per essere battezzato e tuttavia dopo il battesimo lo Spirito Santo fu visto scendere su di lui in forma di colomba 149, allo stesso modo bisogna ritenere che tutti gli uomini santi potevano possedere segretamente lo Spirito Santo prima ancora della sua venuta visibile e manifesta. Abbiamo detto questo a ragion veduta perché comprendiamo che, nella stessa visibile manifestazione dello Spirito Santo, che viene chiamata la sua venuta, la pienezza dello Spirito è stata infusa nei cuori degli uomini con maggiore abbondanza, in modo ineffabile e addirittura inconcepibile.
63. - IL VERBO
In principio era il Verbo 150. Il termine greco in latino significa sia "ragione" che "parola". In questo passo però è meglio intendere "parola", per indicare non solo il rapporto al Padre, ma anche alle cose, che sono state fatte per mezzo del Verbo con potenza creatrice. La ragione invece si chiama giustamente ragione, anche se non si fa nulla per mezzo di essa.
1. I misteri evangelici espressi dalle parole e dalle azioni di nostro Signore Gesù Cristo non sono accessibili a tutti. Alcuni, interpretandoli superficialmente e sconsideratamente, il più delle volte recano danno invece della salvezza ed errore invece della verità. Tra questi misteri c’è quello in cui si narra che il Signore all’ora sesta venne al pozzo di Giacobbe; stanco del cammino si sedette e chiese da bere a una donna samaritana, e tutto il resto che, nello stesso passo delle Scritture, è proposto alla discussione e alla considerazione. A tale proposito si deve tener presente innanzitutto una regola da osservare con estrema diligenza in tutte le Scritture, perché l’esposizione del mistero divino sia conforme alla fede.
2. Nostro Signore venne dunque al pozzo all’ora sesta. Nel pozzo scorgo una profondità tenebrosa. Sono pertanto esortato a scoprire le regioni inferiori di questo mondo, cioè le terrene, dove il Signore Gesù venne nell’ora sesta, ossia nella sesta età del genere umano, quasi nella vecchiaia del vecchio uomo, di cui ci viene comandato di spogliarci per rivestire il nuovo, creato secondo Dio 152. La sesta età infatti è la vecchiaia: poiché la prima è l’infanzia, la seconda la fanciullezza, la terza l’adolescenza, la quarta la giovinezza, la quinta la maturità. Pertanto la vita dell’uomo vecchio, che si svolge nella condizione temporale secondo la carne, si conclude con la vecchiaia nella sesta età. Nella vecchiaia dell’umanità, come ho detto, nostro Signore è venuto a noi come creatore e redentore per inaugurare in se stesso, mentre moriva il vecchio uomo, il nuovo che avrebbe trasferito nel regno celeste, purificato dalle macchie terrene. Ora il pozzo, come si è detto, indica dunque nella tenebrosa profondità il travaglio terreno e il traviamento di questo mondo. E poiché il vecchio uomo è esteriore e il nuovo interiore, l’Apostolo ha detto: Se anche il nostro uomo esteriore si corrompe, quello interiore si rinnova di giorno in giorno 153. È quanto mai appropriato - dal momento che tutte le cose visibili riguardano l’uomo esteriore: ad esse rinunzia la mortificazione cristiana - che il Signore venne al pozzo all’ora sesta, cioè a mezzogiorno, quando questo sole già comincia a volgere al tramonto. Infatti anche in noi, con la chiamata di Cristo, diminuisce il piacere delle cose visibili, sicché l’uomo interiore, ricreato dall’amore delle cose invisibili, si volga alla luce interiore che mai tramonta e, secondo l’insegnamento dell’Apostolo, non cerchi le cose visibili, ma quelle invisibili: le visibili infatti sono d’un momento, quelle invisibili invece eterne 154.
3. Che poi al pozzo sia giunto stanco indica la debolezza della carne, che si sia seduto, l’umiltà: si è addossato infatti la debolezza della nostra carne, e con profonda umiltà ha voluto mostrarsi uomo tra gli uomini. Di questa debolezza della carne il Profeta dice: Uomo provato dal dolore e capace di sopportare la sofferenza 155. Dell’umiltà parla invece l’Apostolo che dice: Umiliò se stesso fatto ubbidiente fino alla morte 156. Il fatto che sedeva, dato che i dottori hanno la consuetudine di sedersi, potrebbe, in un altro senso, indicare non tanto la modestia dell’umiltà quanto l’autorità del maestro.
4. Possiamo ancora domandare perché ha chiesto da bere a una donna samaritana, venuta a riempire d’acqua l’anfora, quando egli stesso avrebbe poi affermato di poter dare, a chi lo pregava, l’abbondanza della sorgente spirituale. Ma il Signore aveva sete della fede di quella donna, che era samaritana, e la Samaria simboleggia di solito l’idolatria. Essi, separati dal popolo dei Giudei, avevano consegnato l’onore delle loro anime ai simulacri di muti animali, cioè a vitelli d’oro, il nostro Signore Gesù era invece venuto a condurre la moltitudine delle genti, asservita agli idoli, al baluardo della fede cristiana e della retta religione. Egli dice infatti: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati 157. Ha dunque sete della fede di coloro per i quali ha sparso il sangue. Le disse pertanto Gesù: Donna, dammi da bere 158. E perché tu sappia di che cosa aveva sete nostro Signore, dopo un po’ arrivano i suoi discepoli, andati in città a comprare provviste, e gli dicono: Maestro mangia. Ma egli rispose: " Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete ". E i discepoli si domandavano l’un l’altro: " Qualcuno forse gli ha portato da mangiare? ". Gesù disse loro: " Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera " 159. Forse qui si può intendere che la volontà del Padre, che lo ha mandato, e la sua opera, che egli dichiara di voler compiere non ha altro scopo che la nostra conversione alla sua fede dai pericolosi traviamenti del mondo? Qual è dunque il suo cibo, tale è anche la sua bevanda. Pertanto in quella donna proprio di questo egli aveva sete: fare in lei la volontà del Padre e compiere la sua opera. Ma quella, intendendo in senso materiale, risponde: Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una Samaritana? Perché i Giudei non vanno d’accordo con i Samaritani. Nostro Signore le rispose: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: " Dammi da bere ", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva 160. Voleva farle capire che non aveva chiesto quell’acqua a cui lei aveva pensato, ma che aveva sete della sua fede e a lei, che aveva sete, desiderava dare lo Spirito Santo. Questo infatti è il vero senso dell’acqua viva, che è dono di Dio, com’egli dice: Se tu conoscessi il dono di Dio. E come lo stesso evangelista Giovanni attesta in un altro luogo dicendo: Gesù, levatosi in piedi, esclamò ad alta voce: " Chi ha sete venga a me e beva; chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno " 161. Con assoluta conseguenza dice: Chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno, perché, per meritare questi doni, noi prima crediamo. I fiumi di acqua viva che egli voleva dare a quella donna sono dunque il premio della fede di cui innanzitutto aveva sete in lei. Subito dopo espone il significato di quest’acqua viva, e dice: Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui. Infatti non era stato ancora dato lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato 162. Questo è dunque il dono dello Spirito Santo, che ha dato alla Chiesa dopo la sua glorificazione, come afferma un altro passo della Scrittura: Ascendendo in alto, ha condotto schiava la schiavitù, ha distribuito doni agli uomini 163.
5. Ma quella donna ha ancora idee materiali; infatti così risponde: Signore, tu non hai un recipiente per attingere e il pozzo è profondo, come puoi darmi acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci ha dato questo pozzo e da esso ha bevuto lui, i suoi figli e il suo bestiame? Questa volta il Signore spiega le sue parole: Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io darò, non avrà più sete in eterno; ma l’acqua che io darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna. La donna però si attacca ancora alla prudenza della carne. Cosa risponde infatti? Signore, dammi quest’acqua, perché non abbia più sete e non venga più qui ad attingere. Le dice Gesù: Va’ a chiamare tuo marito e vieni qua. Ci chiediamo perché abbia parlato così, quando sapeva che non aveva marito. Quella infatti rispose: Non ho marito. Gesù le dice: Hai detto bene che non hai marito; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero 164. Neppure queste parole si devono intendere in senso materiale, altrimenti anche noi saremmo simili a questa donna samaritana. Se noi abbiamo già assaporato qualcosa del dono di Dio, indaghiamo spiritualmente la questione.
6. Secondo alcuni i cinque mariti sono i cinque libri dati da Mosè. Quanto poi alla frase: Quello che hai ora non è tuo marito 165, credono che il Signore l’abbia detto di se stesso, sicché il senso sarebbe questo: Prima eri soggetta ai cinque libri di Mosè come a cinque mariti; ma quello che hai ora, vale a dire quello che ascolti, che parla con te, non è tuo marito, perché non hai ancora creduto in lui. Ma poiché non crede ancora in Cristo, è perciò ancora soggetta a quei cinque mariti, ossia ai cinque libri; si può muovere l’obiezione, perché abbia potuto dire: Hai avuto cinque mariti, come se ora non li avesse più, mentre vive certamente ancora soggetta a loro. Inoltre dal momento che i cinque libri di Mosè non hanno altro scopo che annunziare Cristo, come dice egli stesso: Se credeste a Mosè, credereste anche a me, perché di me egli ha scritto 166, come si può affermare che l’uomo, per passare a Cristo, deve allontanarsi da quei cinque libri, quando colui che crede in Cristo dovrebbe attaccarsi con maggior ardore a quei cinque libri, per intenderli spiritualmente, invece di abbandonarli?
7. C’è dunque un’altra interpretazione: i cinque mariti si riferiscono ai cinque sensi del corpo. Il primo, che risiede negli occhi, ci permette di vedere questa luce visibile, tutti i colori e le figure dei corpi; il secondo, quello delle orecchie, ci fa sentire le variazioni delle voci e di tutti i suoni; il terzo, quello delle narici, ci diletta con la varia soavità dei profumi; il quarto è il gusto, situato nella bocca: avverte il dolce e l’amaro e distingue tutti i sapori; il quinto, diffuso per tutto il corpo, distingue, al tatto, il caldo e il freddo, il molle e il duro, il liscio e il ruvido, e ogni altra sensazione tattile. La prima età dell’uomo, per necessità della natura mortale, è dominata da questi cinque sensi del corpo. Dopo il peccato del primo uomo nasciamo in tale condizione che, finché non ci sarà restituita la luce della mente, trascorriamo la vita carnale soggetti ai sensi del corpo senza alcuna idea di verità. Questa è necessariamente la condizione degli infanti e dei piccoli bambini, che non hanno ancora l’uso della ragione. E poiché questi sensi, che dominano la prima età dell’uomo, sono naturali e ci sono stati dati da Dio creatore, a ragione vengono detti mariti, cioè sposi, in quanto legittimi: non li ha infatti forniti la colpa per proprio vizio, ma la natura per opera di Dio. Ma quando uno arriva a quell’età in cui è ormai capace di ragione, se potrà cogliere rapidamente la verità, non resterà più sotto la guida di quei sensi, ma avrà un marito, cioè lo spirito razionale, al cui servizio ridurrà i sensi, sottomettendo il proprio corpo all’obbedienza. Quando l’anima non è più soggetta ai cinque mariti, cioè ai cinque sensi del corpo, ma ha come legittimo sposo il Verbo divino, al quale è intimamente unita, e anche quando lo spirito dell’uomo aderirà a Cristo, perché Cristo è il capo dell’uomo 167, allora godrà l’amplesso spirituale nella vita eterna senza alcun timore di separazione. Chi potrà dunque separarci dall’amore di Cristo? 168 Ma poiché quella donna era legata dall’errore e simboleggiava la moltitudine del mondo schiava di varie superstizioni, dopo il periodo dei cinque sensi del corpo dai quali era dominata la prima età, come abbiamo detto, non era stata sposata dal Verbo di Dio, ma l’aveva posseduta il diavolo con vincolo adulterino. Allora il Signore, vedendo che era carnale, le dice: Va’ a chiamare tuo marito e vieni qui; in altre parole: rimuovi da te ogni affetto carnale, che ora ti tiene avvinta, e ti impedisce di comprendere ciò che dico: e chiama tuo marito, vale a dire: sii presente con spirito d’intelligenza. Lo spirito dell’uomo è in un certo senso sposo dell’anima e governa come una sposa la sensibilità animale. Non è lo Spirito Santo, che permane immutabilmente col Padre e col Figlio ed è donato senza mutazione alle anime pure, ma lo spirito dell’uomo di cui l’Apostolo dice: Nessuno sa cosa c’è nell’uomo se non lo spirito dell’uomo. Lo Spirito Santo è infatti lo Spirito di Dio, del quale dice di nuovo così: E nessuno sa le cose di Dio se non lo Spirito di Dio 169. Quando dunque questo spirito dell’uomo è presente, cioè dentro, e si sottomette religiosamente a Dio, l’uomo comprende ciò che è detto in senso spirituale. Quando invece nell’anima domina l’errore del diavolo, quasi che l’intelletto fosse assente, è adultero. Il Signore dice: Chiama dunque tuo marito, cioè lo spirito che è in te, col quale l’uomo può comprendere le cose spirituali, purché la luce della verità lo illumini. Sia presente lo spirito quando ti parlo, perché tu possa ricevere l’acqua spirituale. E poiché quella aveva detto: Non ho marito, Gesù rispose: Hai detto bene; infatti hai avuto cinque mariti, cioè i cinque sensi della carne ti hanno dominato nella prima età; e quello che hai ora non è tuo marito 170, perché non c’è in te lo spirito che conosce Dio con il quale tu possa stringere un vincolo legittimo; ma in te prevale piuttosto l’errore del diavolo che ti corrompe con una relazione adulterina.
8. E forse per indicare agli intelligenti che con l’espressione cinque mariti sono raffigurati i cinque sensi del corpo, che abbiamo ricordato, dopo cinque risposte carnali questa donna nella sesta risposta nomina Cristo. Infatti la sua prima risposta è questa: Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me? La seconda: Signore, tu non hai un recipiente e il pozzo è profondo; la terza: Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non venga più qui ad attingere; la quarta: Non ho marito; la quinta: Vedo che tu sei un profeta; i nostri padri hanno adorato su questo monte. Anche questa risposta è carnale. Agli uomini carnali era stato infatti concesso un luogo terreno per pregare: ma il Signore ha detto che gli spirituali avrebbero pregato in spirito e verità. E dopo queste parole alla sesta risposta, la donna riconosce che Cristo è il maestro di tutti costoro; dice infatti: So che verrà il Messia, cioè il Cristo, quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa 171. Ma s’inganna ancora, perché non vede che è già venuto colui che spera verrà. Tuttavia per la misericordia del Signore questo errore ora viene cacciato via come adultero. Gesù le dice infatti: Sono io, che ti parlo. Udito questo la donna non rispose, ma subito, abbandonata l’anfora, andò in fretta in città per annunciare il Vangelo e la venuta del Signore e non credere semplicemente. Non si deve neppure passare negligentemente sotto silenzio il fatto che si sia allontanata lasciando l’anfora. L’anfora sta forse a significare l’amore di questo mondo, cioè la cupidigia, con la quale gli uomini ricercano il piacere dal fondo tenebroso, di cui è simbolo il pozzo, vale a dire dalla vita terrena. Gustato questo piacere si accendono di nuovo desiderio, come dice il Signore: Chi beve di quest’acqua avrà di nuovo sete 172. Era dunque necessario, per credere in Cristo, rinunciare al mondo e, abbandonata l’anfora, dimostrare di essersi liberata dalla cupidigia terrena, non solo credendo col cuore per la giustizia, ma anche confessando con la bocca e proclamando ciò che credeva per [avere] la salvezza 173.
65. - LA RISURREZIONE DI LAZZARO 174
Sebbene noi crediamo fermamente alla risurrezione di Lazzaro secondo il racconto storico del Vangelo, non dubito tuttavia che abbia anche un significato allegorico. I fatti, quando sono interpretati allegoricamente, non perdono il valore dell’avvenimento. Anche Paolo presenta i due figli di Abramo allegoricamente, come i due Testamenti 175; per questo si può forse dire che Abramo non è esistito o non ha avuto due figli? Prendiamo dunque anche Lazzaro nel sepolcro in senso allegorico come l’anima oppressa dai peccati di questa vita, cioè tutto il genere umano. Altrove il Signore la rappresenta nella pecora smarrita: dice infatti di essere disceso dal cielo per liberarla, lasciando sui monti le altre novantanove 176. Ritengo che la domanda del Signore: Dove l’avete posto? significhi la nostra vocazione, la quale avviene nel segreto. Infatti la predestinazione della nostra vocazione è occulta; di questo segreto è segno la domanda del Signore, come se egli l’ignorasse, mentre siamo noi che non la conosciamo, come dichiara l’Apostolo: Affinché io conosca come sono conosciuto 177. Oppure il Signore, come dice altrove, mostri d’ignorare i peccatori: Non vi conosco 178; questo simboleggiava Lazzaro nel sepolcro, poiché nella dottrina e nei precetti del Signore non vi sono peccati. Questa domanda assomiglia a quella della Genesi: Adamo, dove sei? 179 Poiché aveva peccato, si era nascosto dalla presenza di Dio. Qui la sepoltura corrisponde al nascondimento: il morto assomiglia al peccatore e il sepolto assomiglia a chi si nasconde dalla faccia di Dio. Togliete la pietra 180: queste parole indicano, a mio parere, coloro che volevano imporre il peso della circoncisione ai pagani entrati nella Chiesa - contro costoro scrive molte volte l’Apostolo 181 -, oppure coloro che nella Chiesa vivono dissolutamente e sono di scandalo a quanti desiderano credere. Marta gli dice: Signore, è già il quarto giorno e puzza 182. La terra è l’ultimo dei quattro elementi: simboleggia dunque il fetore dei peccati terreni, cioè delle passioni carnali. Dopo il peccato, il Signore disse ad Adamo: Infatti, sei terra e tornerai alla terra 183. Tolta la pietra uscì dal sepolcro con le mani e i piedi legati e la faccia coperta da un sudario. L’uscita dal sepolcro rappresenta l’anima che si libera dai vizi carnali. Che poi sia avvolto dalle bende significa che, sebbene ci allontaniamo dai piaceri carnali e con il cuore osserviamo la legge divina, finché siamo nel corpo, non possiamo ancora essere liberi dalle molestie della carne, come dice l’Apostolo: Con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato 184. La faccia ricoperta dal sudario significa che in questa vita non possiamo avere una conoscenza perfetta, come dice l’Apostolo: Ora vediamo come in uno specchio, in enigma, ma allora a faccia a faccia 185. Gesù disse: Scioglietelo e lasciatelo andare 186, per indicare che dopo questa vita saranno tolti tutti i veli per vedere a faccia a faccia. Qui poi si comprende qual è la differenza tra l’uomo assunto dalla Sapienza di Dio, dal quale siamo stati liberati, e gli altri uomini: Lazzaro infatti non viene sciolto se non quando esce dal sepolcro; vale a dire che l’anima rigenerata non può essere libera da ogni peccato e dall’ignoranza, finché vede di riflesso e in enigma, se non dopo la separazione dal corpo. Invece le bende e il sudario del Signore che non ha commesso peccato e non ignorava nulla sono stati ritrovati nel sepolcro 187. Lui solo infatti tra gli esseri di carne non solo non è stato oppresso dal sepolcro, come se in lui ci fosse qualche colpa 188, ma neppure è stato avvinto dalle bende, come se qualcosa gli fosse nascosta o lo ritardasse nel cammino.
66. - SUL TESTO DELLA SCRITTURA: O FORSE IGNORATE, FRATELLI
- pARLO A GENTE ESPERTA DI LEGGE -, CHE LA LEGGE HA POTERE
SULL’UOMO FINCHÉ VIVE?, SINO AL PUNTO CHE DICE: DARÀ
LA VITA ANCHE AI VOSTRI CORPI MORTALI, PER MEZZO
DEL SUO SPIRITO CHE ABITA IN VOI 189
1. L’Apostolo, in questa similitudine, parla dell’uomo e della donna e, poiché la donna è soggetta alla legge dell’uomo, raccomanda di considerare tre cose: la donna, l’uomo e la legge. La donna è soggetta all’uomo per il vincolo della legge, vincolo che viene sciolto con la morte del marito, sicché può sposare chi vuole. Ecco infatti le sue parole: La donna sposata, infatti, è legata alla legge del marito finché egli vive; ma se il marito muore, è libera dalla legge del marito. Essa sarà dunque chiamata adultera se, mentre vive il marito, va con un altro, ma se il marito muore, essa è libera dalla legge e non è più adultera se va con un altro uomo 190. Fin qui si tratta di un paragone, in seguito inizia a parlare di ciò che voleva esporre e spiegare mediante il paragone. Anche qui bisogna considerare tre cose: l’uomo, il peccato, la legge. Afferma infatti che l’uomo è soggetto alla legge fino a quando vive nel peccato; ugualmente la donna è soggetta alla legge del marito fino a quando egli vive. Ora qui per peccato si deve intendere quello che sopravviene a causa della legge. Questo peccato, egli osserva, oltrepassa la misura perché, pur essendo già peccato in se stesso, lo si commette ugualmente e si aggrava con l’aggiunta della trasgressione. Dove infatti non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione 191. Questo è il senso delle parole: Perché diventi peccatore in sommo grado e il peccato sia tale per mezzo del precetto 192. Per questo motivo, sebbene la legge proibisca di peccare, non dice che è stata data per liberare dal peccato, ma per mostrare il peccato; l’anima, che ne è schiava, deve convertirsi alla grazia del Liberatore per essere liberata dal peccato: Perché per mezzo della legge si ha la conoscenza del peccato 193. Altrove dice: Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene 194. Dove dunque non c’è la grazia del Liberatore, il divieto di peccare aumenta il desiderio dei peccati. Il che ha però una sua utilità: che l’anima si senta incapace di svincolarsi dalla schiavitù del peccato e così, sbollito ed estinto ogni orgoglio, si sottometta al suo Liberatore e l’uomo dica in sincerità: A te si stringe l’anima mia 195; e così non è più sotto la legge del peccato ma nella legge della giustizia. Ora si dice legge di peccato non perché la stessa legge è peccato ma perché è imposta ai peccatori. Per questo si dice anche legge di morte, perché la morte è il salario del peccato 196, il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge 197. Col peccato precipitiamo infatti nella morte. E noi pecchiamo più gravemente quando c’è la proibizione della legge, che se non ci fosse alcun divieto della legge. Ma con l’aiuto della grazia noi adempiamo senza fatica e con grande piacere le stesse onerose prescrizioni della legge. La legge dunque del peccato e della morte, cioè quella che è stata imposta a coloro che peccano e muoiono, comanda soltanto di non desiderare il male e tuttavia noi lo desideriamo. Invece la legge dello spirito e della vita, che appartiene alla grazia e libera dalla legge del peccato e della morte, ci concede di non desiderare il male e di osservare i precetti della legge, non già per timore come schiavi della legge, ma per amore come amici e servi della giustizia, da cui quella legge proviene. Bisogna infatti servire la giustizia con spirito di libertà e non di schiavitù, cioè più per amore che per timore. Per questo è detto in tutta verità: Togliamo dunque ogni valore alla legge mediante la fede? Niente affatto, anzi confermiamo la legge 198. La fede infatti opera ciò che la legge comanda. La legge è dunque confermata dalla fede; se non c’è la fede, la legge prescrive solamente e rende colpevoli quelli che non osservano i comandi, al fine di convertire finalmente alla grazia del Liberatore coloro che gemono nell’incapacità di adempiere quanto è stato comandato.
2. Quando dunque in quel paragone scorgiamo tre cose: la donna, l’uomo e la legge, e di nuovo tre in questo caso, a cui si riferiva il paragone: l’anima, il peccato e la legge del peccato; qui c’è un’unica differenza, che in quel paragone il marito muore, sicché la donna può sposare chi vuole ed è libera dalla legge del marito; qui invece l’anima stessa muore al peccato per unirsi a Cristo. Morendo al peccato muore anche alla legge del peccato. Alla stessa maniera - prosegue - fratelli miei, anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete morti alla legge, per appartenere ad un altro, a colui che è risorto dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio. Quando infatti eravamo nella carne, cioè, egli dice, eravamo schiavi dei desideri carnali, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, agivano nelle nostre membra al fine di portare frutto per la morte 199. Dove mancava la fede, si è accresciuta la concupiscenza vietata dalla legge e al cumulo dei peccati si è aggiunto il crimine della trasgressione, perché dove non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione 200. Sono queste passioni, egli dice, stimolate dalla legge, che operavano nelle nostre membra, al fine di produrre frutto di morte. L’anima, prima dell’avvento della grazia per mezzo della fede, si trovava sotto queste passioni, come sotto il dominio del marito. Chi ormai serve interiormente la legge di Dio muore a queste passioni, sebbene le stesse passioni non siano ancora morte, finché per la condizione carnale è schiavo della legge del peccato. A chi è sotto la grazia resta dunque ancora qualcosa che, pur non vincendolo né tenendolo prigioniero, finché non sia morto del tutto ciò che è stato rafforzato da una cattiva abitudine, fa conseguentemente dire che anche ora è un corpo di morte, fino a quando non è perfettamente sottomesso allo spirito. La perfetta sottomissione avverrà, quando il corpo mortale sarà anch’esso vivificato.
3. Da ciò comprendiamo che in uno stesso uomo vi sono quattro fasi da superare gradatamente per stabilirsi nella vita eterna. Era infatti conveniente e giusto che, avendo la nostra natura peccato e perduto la beatitudine spirituale, indicata col nome di paradiso, nascessimo animali e carnali. La prima fase precede la legge, la seconda è sotto la legge, la terza sotto la grazia, la quarta nella pace. Nella fase precedente la legge ignoriamo il peccato e seguiamo la concupiscenza carnale. Nella fase sotto la legge il peccato ci è vietato e tuttavia, vinti dalla sua consuetudine, pecchiamo, perché non siamo ancora aiutati dalla fede. Nella terza fase confidiamo totalmente nel nostro Liberatore e non riferiamo nulla ai nostri meriti, ma, amando la sua misericordia, non ci lasciamo più vincere dal piacere della cattiva consuetudine, che cerca di ricondurci al peccato; avvertiamo però che ci disturba ancora anche se non cediamo. Nella quarta fase non c’è assolutamente più nulla nell’uomo che si oppone allo spirito, ma tutte le facoltà concordemente unite e connesse insieme, conservano l’unità in stabile pace. Questo avverrà quando il corpo mortale sarà vivificato, e questo corpo corruttibile si sarà rivestito d’incorruttibilità e questo mortale d’immortalità 201.
4. Intanto, a conferma della prima fase, si presentano questi testi: A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo. Ma il peccato non era imputato quando non c’era la legge 202. E ancora: Senza la legge infatti il peccato è morto, e io un tempo vivevo senza la legge 203. Quanto è detto qui: è morto, equivale a quanto detto precedentemente: non era imputato, cioè stava nascosto. Il che appare nelle parole seguenti, quando dice: Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene 204, cioè per mezzo della legge, perché la legge è buona, se uno ne usa legalmente 205. Se dunque qui dice: per rivelarsi peccato, è chiaro che prima diceva è morto e non viene imputato, perché non si era manifestato prima di essere svelato con la proibizione della legge.
5. Alla seconda fase si applicano i seguenti testi: La legge poi sopraggiunse per moltiplicare il peccato 206. Si aggiunse infatti la trasgressione che prima non c’era. E il testo già ricordato: Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, agivano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte 207. E questo: Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: " Non desiderare ". Prendendo occasione da questo comandamento, il peccato ha prodotto in me ogni concupiscenza 208. E poco dopo dice: Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; e il comandamento che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte. Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte 209. Quando dunque dice: sono morto, vuol fare intendere: mi sono accorto di essere morto, poiché colui, che vede mediante la legge ciò che non deve fare eppure lo fa, ora pecca anche con la trasgressione. Quanto poi al testo: Il peccato, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto 210, vuol indicare o che l’attrattiva del piacere a peccare è più intensa, quando c’è la proibizione, o che l’uomo sebbene agisca secondo il precetto della legge, se manca ancora la fede corroborata dalla grazia, pretende di attribuire questo a se stesso e non a Dio, e pecca più gravemente per superbia. Prosegue dunque dicendo: Così la legge è santa, e santo e giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché apparisse peccatore oltre misura o peccato peccaminoso per mezzo del comandamento. Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne 211, cioè acconsento alla carne, perché non sono ancora liberato dalla grazia spirituale. Venduto come schiavo del peccato 212, pecco cioè a prezzo dei piaceri temporali. Non so infatti cosa faccio 213, cioè non avverto di essere nei precetti della verità, dov’è la vera scienza. Secondo questa espressione il Signore dice ai peccatori: Non vi conosco. A lui nulla è nascosto, ma poiché i peccati non rientrano nelle regole dei precetti derivanti dalla verità, la stessa Verità dice perciò ai peccatori: Non vi conosco. Come infatti le tenebre si avvertono senza vedere con gli occhi, così i peccati si avvertono con la mente, ignorandoli. Questo è, a mio parere, il senso dell’espressione nei Salmi: I delitti chi li discerne? 214 Infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra 215. Fino a qui sono parole dell’uomo posto sotto la legge, non ancora sotto la grazia; il quale, anche se non vuole peccare, è vinto dal peccato. Infatti la consuetudine carnale e la naturale catena della mortalità, con cui discendiamo da Adamo, si è rinvigorita. Chi si trova in tale situazione implori dunque aiuto, e riconosca che la caduta è dipesa da lui, ma non dipende da lui risollevarsi. Una volta liberato, riconoscendo la grazia del suo Liberatore, dice: Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore 216.
6. Ed ora iniziano le parole riguardanti l’uomo costituito sotto la grazia, in quella che abbiamo definito terza fase: in essa la mortalità della carne recalcitra senza dubbio, ma non vince né acconsente alla schiavitù del peccato. Dice infatti così: Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato. Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte. Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché era inferma per la carne 217, cioè per i desideri carnali; infatti non si osservava la legge, perché non c’era ancora l’amore della stessa giustizia che, colmando l’animo di gioia interiore, impedisse di trascinare al peccato per il piacere delle cose temporali. Dunque la legge era inferma a causa della carne, cioè non giustificava gli schiavi della carne. Ma Dio mandò il suo proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato 218. Non era una carne di peccato, poiché non era nata da piacere carnale, ma somigliava alla carne di peccato, perché era carne mortale e Adamo ha meritato la morte a causa del peccato. Ma che ha fatto il Signore? In vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne 219, assumendo cioè la carne dell’uomo peccatore e insegnando come vivere condannò il peccato nella stessa carne, affinché lo spirito, infiammato d’amore per le cose eterne, non fosse condotto schiavo consentendo alla libidine. Perché la giustizia della legge - prosegue - si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito 220. Quindi i precetti della legge, che non potevano essere osservati mediante il timore, furono osservati per mezzo dell’amore. Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne - bramano cioè i beni carnali come beni supremi -; quelli invece che vivono secondo lo Spirito pensano alle cose dello Spirito. Ma la prudenza della carne è morte; la prudenza dello Spirito invece è vita e pace, perché la prudenza della carne è nemica di Dio 221. Lo stesso Apostolo spiega cosa intenda per nemica, perché nessuno creda che si introduca in opposizione un altro principio. Aggiunge infatti queste parole: Non è soggetta alla legge di Dio e neanche lo può 222. Quindi essere nemico di Dio vuol dire trasgredire la legge: non perché qualcosa possa nuocere a Dio, ma perché chiunque resiste alla volontà di Dio nuoce a se stesso. Questo significa infatti recalcitrare contro lo stimolo, come è stato detto dal cielo all’Apostolo, quando perseguitava ancora la Chiesa 223. Per questo la frase: Non è soggetta alla legge di Dio e neanche lo può 224, corrisponde alla seguente: la neve non riscalda e neppure lo può. Infatti, finché resta neve, non riscalda; ma può essere sciolta e bollire sì da riscaldare; ma quando fa questo non è più neve. Così si parla anche di prudenza della carne, quando l’anima brama come beni supremi i beni materiali. Finché tale brama è in lei, non può essere soggetta alla legge di Dio, cioè non può osservare i precetti della legge. Quando invece comincia a desiderare i beni spirituali e disprezzare i materiali, viene meno la prudenza della carne e non si oppone allo spirito. Anche dell’anima stessa si dice infatti che ha la prudenza carnale, quando desidera le cose inferiori, e la prudenza spirituale, quando desidera le superiori: non perché la prudenza della carne è una sostanza, che l’anima si mette o si toglie, ma è una disposizione dell’anima stessa, che sparisce completamente quando si converte del tutto alle cose superiori. Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio 225, quelli cioè che acconsentono ai piaceri della carne. Perché nessuno creda che si riferisca a coloro che non sono ancora passati da questa vita, molto opportunamente aggiunge: Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello spirito 226. Parla certamente a persone ancora in vita. Erano infatti sotto il dominio dello Spirito, perché trovavano conforto nella fede, speranza e carità ai desideri delle cose spirituali. Se però - continua - lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito è vita a causa della giustificazione 227. Dice che il corpo è morto, finché si trova nella condizione d’infastidire l’anima per il bisogno di cose materiali e di stimolarla per certi impulsi, originati dallo stesso bisogno, a desiderare le cose della terra. L’anima tuttavia, pur esistendo questi impulsi, non acconsente a fare il male, perché osserva già la legge di Dio ed è stabilita sotto la grazia. Qui si applica quanto è stato detto precedentemente: Con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato 228. Ora viene descritto l’uomo sotto la grazia, il quale non ha ancora la pace perfetta, che si avrà con la risurrezione e la trasformazione del corpo.
7. Resta dunque da parlare di questa pace della risurrezione del corpo, che è propria della quarta fase; se però conviene chiamarla azione, perché è somma quiete. Infatti prosegue in questi termini: Se dunque lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi 229. Qui c’è una chiarissima affermazione della risurrezione del corpo, e appare a sufficienza che finché siamo in questa vita non mancano le molestie a causa della carne mortale né le sollecitazioni dei piaceri carnali. Anche se chi è costituito sotto la grazia e nell’intimo osserva la legge di Dio non cede, tuttavia nella carne serve la legge del peccato. Nell’uomo reso perfetto attraverso queste tappe non c’è più alcun male; neppure la legge è cattiva, che mostra all’uomo in quali vincoli di peccato giaccia, affinché, dopo aver implorato per mezzo della fede l’aiuto del Liberatore, meriti di essere liberato, rialzato e stabilito in perfetto equilibrio. Dunque nella prima fase, precedente la legge, non si lotta affatto coi piaceri di questo mondo; nella seconda, sotto la legge, lottiamo ma veniamo sconfitti; nella terza lottiamo e vinciamo; nella quarta non lottiamo ma riposiamo nella pace perfetta ed eterna. Il nostro essere interiore è infatti a noi soggetto, mentre prima rifiutava la sottomissione, perché avevamo abbandonato Dio, nostro superiore.
67. - SUL TESTO: IO RITENGO, INFATTI, CHE LE SOFFERENZE DEL
MOMENTO PRESENTE NON SONO PARAGONABILI ALLA GLORIA FUTURA
CHE DOVRÀ ESSERE RIVELATA IN NOI, SINO AL PUNTO DOVE SI DICE:
POICHÉ NELLA SPERANZA NOI SIAMO STATI SALVATI 230
1. Questo capitolo è oscuro perché qui non appare chiaramente di quale tema discuta l’Apostolo. Ora, secondo la dottrina cattolica, si dice creatura tutto ciò che Dio Padre ha fatto per mezzo del Figlio unigenito nell’unità dello Spirito Santo. Dunque sotto il nome di creatura rientrano non solo i corpi, ma anche le nostre anime e gli spiriti. Sta scritto così: La creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della morte alla libertà della gloria dei figli di Dio 231, come se noi non fossimo creatura, ma figli di Dio, alla cui libertà di gloria la creatura sarà liberata dalla schiavitù. Dice ancora: Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi; essa non è la sola ma anche noi stessi 232; come se noi fossimo una cosa e la creazione un’altra. Bisogna quindi considerare dettagliatamente tutto il capitolo.
2. Io ritengo infatti - scrive - che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi 233; questo è chiaro. Prima aveva detto: Se invece con lo spirito fate morire le opere della carne, vivrete 234. Il che non può avvenire senza sofferenza, per la quale è necessaria la pazienza. A ciò si riferisce quanto dice più avanti: Se veramente partecipiamo alle sue sofferenze, per partecipare anche alla sua gloria 235. Penso che egli voglia dire proprio questo quando afferma: La creazione stessa attende infatti la rivelazione dei figli di Dio 236. Infatti quello che in noi prova sofferenza, quando mortifichiamo le opere della carne, cioè quando per l’astinenza sentiamo la fame e la sete, quando con la castità freniamo il piacere sessuale, quando con la pazienza sopportiamo le ingiurie laceranti e le spine degli oltraggi, quando, trascurati e respinti i nostri comodi, ci affatichiamo per il bene della madre Chiesa: tutto ciò che in noi, in questa e in altre tribolazioni, prova sofferenza, è creatura. Soffrono infatti il corpo e l’anima, che sono certamente creature, e attendono la rivelazione dei figli di Dio; aspettano cioè il momento in cui quello che è stato chiamato appaia nella gloria a cui è stato chiamato. Infatti il Figlio unigenito di Dio non può essere chiamato creatura, dal momento che per suo mezzo è stato fatto tutto ciò che Dio ha fatto. Anche noi con opportuna distinzione siamo chiamati sia creatura, prima della manifestazione della gloria, che figli di Dio, sebbene questo sia merito di adozione, perché solo l’Unigenito è Figlio per natura. Dunque l’attesa della creazione, cioè la nostra aspettativa, attende la rivelazione dei figli di Dio 237; aspetta cioè il momento in cui appaia quanto è stato promesso, quando si manifesterà nella realtà ciò che ora noi siamo nella speranza. Noi siamo infatti figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è 238. Questa è la rivelazione dei figli di Dio, che ora la creazione aspetta con impazienza. La creazione non attende la rivelazione di un’altra natura, che non sia creatura; ma essa, com’è al presente, aspetta il momento di diventare quello che sarà. Allo stesso modo si potrebbe dire di un pittore, munito dei colori appropriati per il suo quadro, che i colori aspettano la realizzazione dell’immagine; non nel senso che ora sono una cosa, o non saranno colori, ma solo che avranno un’altra dignità.
3. La creazione infatti - dice l’Apostolo - è stata sottomessa alla vanità 239, secondo il detto: Vanità delle vanità e tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? 240 A lui è stato detto: Mangerai il pane con fatica 241. La creazione è stata dunque sottomessa alla vanità non per suo volere 242. Opportunamente è stato aggiunto: non per suo volere, perché l’uomo ha volontariamente peccato, ma è stato condannato contro il suo volere. Il peccato è stato dunque spontaneo: agire contro il precetto della verità; pena del peccato è stato invece cedere all’inganno. Dunque la creazione non è stata sottomessa spontaneamente alla vanità, ma per volere di colui che l’ha sottomessa nella speranza 243; in vista cioè della giustizia e clemenza di colui che non ha lasciato impunito il peccato e non ha voluto che il peccatore non fosse guarito.
4. Perché anche la stessa creatura 244, cioè l’uomo stesso, che, avendo perduto a causa del peccato l’impronta dell’immagine, è rimasto semplice creatura: dunque anche la stessa creatura, quella stessa cioè che non è ancora chiamata forma perfetta dei figli, ma solo creatura, sarà liberata dalla schiavitù della morte 245. Perciò quando dice: anch’essa sarà liberata, fa capire anch’essa come anche noi, vale a dire: non si deve disperare di coloro i quali, perché non hanno ancora creduto, non sono ancora chiamati figli di Dio, ma solo creatura. Anch’essi infatti crederanno e saranno liberati dalla schiavitù della morte, come noi che già siamo figli di Dio, sebbene non sia ancora apparso ciò che saremo. Saranno alfine liberati dalla schiavitù della morte alla libertà della gloria dei figli di Dio 246: anch’essi, in altre parole, da schiavi diverranno liberi e da morti saranno glorificati nella vita perfetta che avranno i figli di Dio.
5. Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi 247. Tutta la creazione si riassume nell’uomo, non perché in lui vi siano tutti gli Angeli o le altissime Virtù e Potestà, o il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che essi racchiudono, ma perché l’intera creazione o è spirituale o animale o corporea. Se la consideriamo partendo dagli esseri inferiori, la creatura corporea si estende nello spazio; l’animale vivifica i corpi; la spirituale governa l’animalità e la governa bene solo quando si sottomette al governo di Dio. Quando invece ne trasgredisce i precetti, resta impigliata nelle amarezze e miserie procurate da quelle stesse creature che avrebbe dovuto governare. Chi pertanto vive secondo il corpo viene chiamato uomo carnale o animale: carnale perché insegue i beni materiali, animale perché si lascia portare dalla licenza sfrenata della sua anima, non regolata dallo spirito e non trattenuta nei confini dell’ordine naturale, perché lo stesso spirito non si lascia guidare da Dio. Chi invece con lo spirito regge l’anima e con l’anima il corpo - il che non può fare se non si lascia guidare da Dio, perché come l’uomo è capo della donna così Cristo è capo dell’uomo 248 - viene chiamato spirituale. Questa vita ora trascorre con qualche disagio, ma dopo non ne avrà più. E poiché gli Angeli superiori hanno una vita spirituale e quelli inferiori una vita animale, le bestie poi e tutti gli animali hanno una vita carnale, il corpo invece non ha vita ma è vivificato: nell’uomo c’è ogni creatura, perché con lo spirito pensa, con l’anima sente, col corpo si muove localmente. Nell’uomo quindi geme e soffre ogni creatura. L’Apostolo non ha detto tutta ma ogni, come se uno dicesse che tutti gli uomini che sono sani vedono il sole, ma non lo vedono con la totalità di se stessi, perché vedono solo con gli occhi: così nell’uomo si riassume ogni creatura, perché pensa, vive, ha un corpo; ma in lui non c’è tutta la creazione, perché al di fuori di lui sono anche gli Angeli, i quali intendono, vivono e sono, gli animali, che vivono e sono, i corpi che sono semplicemente: vivere è meglio di non vivere, pensare è meglio di vivere senza intelligenza. Quando dunque il misero uomo geme e soffre, ogni creatura geme e soffre fino ad oggi. Ha detto bene fino ad oggi, perché anche se alcuni sono già nel seno di Abramo 249 e il buon ladrone è entrato in paradiso col Signore 250 e ha cessato di soffrire lo stesso giorno in cui ha creduto, tutta la creazione geme e soffre tuttavia sino ad oggi, perché in coloro che non sono ancora liberati essa si ritrova tutta a motivo dello spirito, dell’anima e del corpo.
6. Non solo - prosegue - tutta la generazione geme e soffre, ma anche noi, vale a dire: nell’uomo soffrono insieme non solo il corpo, l’anima e lo spirito per le vicissitudini corporali, ma anche noi, a parte il corpo, gemiamo interiormente, noi che possediamo le primizie dello spirito. Ha detto bene: noi che possediamo le primizie dello spirito per significare coloro i cui spiriti sono già stati offerti a Dio in sacrificio e sono stati avvolti dal fuoco divino della carità. Queste sono le primizie dell’uomo, perché la verità dapprima afferra il nostro spirito e per suo mezzo conquista tutto il resto. Possiede dunque già le primizie offerte a Dio chi dice: Con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato 251; altrettanto chi dice: Dio a cui servo nel mio spirito 252, come anche colui di cui si dice: Lo spirito è pronto ma la carne è debole 253. Ma poiché aggiunge anche: sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? 254, e si riferisce ancora a tali persone: Darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi 255; non c’è ancora l’olocausto. Ci sarà invece quando la morte sarà assorbita nella vittoria e le si dirà: Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? 256 Ora dunque, afferma, non solo tutta la creazione, ossia quella del corpo, ma anche noi che possediamo le primizie dello spirito, cioè anche noi anime, che abbiamo già offerto a Dio come primizie le nostre menti, gemiamo interiormente, cioè oltre il corpo, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo 257. Aspettiamo cioè che lo stesso corpo, ricevendo il dono dell’adozione a figli, alla quale siamo stati chiamati, manifesti che noi, totalmente liberi ed affrancati da ogni disagio, siamo completamente figli di Dio. Nella speranza infatti noi siamo stati salvati: ma la speranza che si vede non è più speranza 258. Quando sarà manifestato ciò che saremo, vale a dire saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è 259, allora sarà dunque realtà ciò che ora è speranza.
7. Se questo capitolo viene spiegato, come si è fatto, evitiamo quelle difficoltà per cui molti uomini sono costretti a dire che tutti gli Angeli e le Virtù celesti sono nel dolore e nei gemiti, finché noi non saremo totalmente liberati, poiché è stato detto: Tutta la creazione geme e soffre 260. Sebbene essi infatti ci aiutino secondo la loro dignità, mentre obbediscono a Dio, che per noi si è degnato d’inviare perfino il suo unico Figlio, bisogna credere tuttavia che lo facciano senza gemiti e dolori, per non ritenerli infelici, e che sia più felice il povero Lazzaro, uno di noi, che già riposa nel seno di Abramo. Tanto più che ha detto che questa stessa creazione, che geme e soffre, è soggetta alla vanità; ammettere questo delle somme e perfette creature, quali le Virtù e le Potestà, è uno sproposito. Ha detto inoltre che deve essere liberata dalla schiavitù della morte: non possiamo credere che vi siano incorsi quelli che in cielo conducono una vita pienamente felice. Non si deve tuttavia affermare nulla superficialmente, ma anche le parole divine si devono affrontare con devota diligenza. Forse la creazione che geme, soffre ed è soggetta alla vanità potrebbe intendersi in un altro modo e applicarsi, senza empietà, anche agli Angeli più eminenti in quanto, per ordine di nostro Signore, vengono in soccorso della nostra infermità. Ma sia che si accetti quella che noi abbiamo proposto o un’altra spiegazione di questo capitolo, bisogna preoccuparsi soltanto di non contraddire o ferire la fede cattolica. So infatti che eretici sconsiderati hanno sciorinato su questo capitolo molte teorie empie e dissennate.
68. - SUL TESTO DELLA SCRITTURA:
O UOMO, TU CHI SEI PER DISPUTARE CON DIO?
1. Poiché sembra che l’Apostolo abbia ripreso i curiosi quando dice: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? 261, essi agitano la questione su questo punto e non cessano d’insistere su quella sentenza che condanna la loro curiosità. Gli empi aggiungono anche l’ingiuria, affermando che l’Apostolo, incapace di risolvere la questione, ha rimproverato i ricercatori perché non era in grado di sciogliere la difficoltà. Inoltre alcuni eretici, nemici della Legge e dei Profeti, che ingannano facendo mostra di una scienza che non possiedono, lanciano l’accusa che tutti i passi inseriti dall’Apostolo nel suo discorso a loro riguardo, sono falsi e interpolati da corruttori. Tra i testi interpolati, essi dicono, hanno voluto annoverare anche questo e negare che Paolo abbia detto: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Se infatti questo è rivolto a loro, che calunniano per ingannare gli uomini, tacerebbero senza dubbio e non oserebbero promettere agli inesperti, che vogliono ingannare, alcuna conoscenza della volontà di Dio onnipotente. Alcuni però che leggono le Scritture con animo leale e devoto, domandano che cosa si può rispondere ai maldicenti e ai calunniatori. Noi però, attenendoci salutarmente all’autorità apostolica e ritenendo che non sono falsificati i libri custoditi dalla dottrina cattolica, pensiamo il vero: sono indegni e incapaci di comprendere i divini misteri coloro ai quali questi misteri sono celati. A coloro che mormorano e s’indignano perché non intendono i disegni di Dio, quando cominciano a dire: Egli quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole. Allora perché ancora si lamenta? Chi può infatti resistere al suo volere? 262 mentre con queste parole cominciano o a calunniare le Scritture o a cercare di nascondere i propri peccati al punto da disprezzare i precetti che conducono alla vita virtuosa, rispondiamo in tutta franchezza: O uomo, chi sei tu per disputare con Dio? Senza lasciarci impressionare da loro, noi non diamo le cose sante ai cani né gettiamo le nostre perle davanti ai porci 263, purché non siamo noi stessi cani e porci e, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, sui meriti delle anime immaginiamo qualcosa, anche se parziale e oscuro, di sublime e ben lontano da ogni volgare congettura.
2. In questo testo l’Apostolo non proibisce ai santi la ricerca ma a quelli che non sono ancora così radicati e fondati nella carità da poter comprendere con tutti i santi l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e tutto il resto che si dice nello stesso brano 264. Non ne ha dunque proibito la ricerca dicendo: L’uomo spirituale giudica ogni cosa; egli però non è giudicato da nessuno 265; e soprattutto questo: Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato 266. A chi dunque l’ha proibita se non agli uomini abietti e terreni, non ancora rigenerati e nutriti interiormente, che portano l’immagine del primo uomo fatto di terra e terreno 267? E poiché non ha voluto obbedire a colui che lo aveva creato è caduto proprio là donde è stato tratto e, dopo il peccato, ha meritato di udire: Sei terra e in terra ritornerai 268. A persone di tal fatta si rivolge dunque l’Apostolo: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Dirà forse il vaso plasmato a colui che l’ha plasmato: "Perché mi hai fatto così? " 269. Finché dunque sei vaso di argilla e non ancora figlio perfetto, non avendo ancora attinto la pienezza della grazia, per cui ci è dato il potere di diventare figli di Dio 270, sì da poter ascoltare: Non vi chiamo più servi ma amici 271; tu chi sei per rispondere a Dio e per voler conoscere la sua intenzione?. Se tu avessi voluto conoscere le intenzioni di un uomo pari a te, avresti agito imprudentemente se prima non fossi stato accolto nella sua amicizia. Come dunque abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo anche l’immagine dell’uomo celeste 272, spogliandoci dell’uomo vecchio e rivestendo il nuovo 273, affinché non ci venga detto come al vaso di argilla: Dice forse il vaso al vasaio: " Perché mi hai fatto così? " 274.
3. Perché sia chiaro che questo è detto non per uno spirito già santo, ma per il fango carnale, senti come prosegue: Non è forse in potere del vasaio che con il medesimo impasto di argilla ci faccia o un vaso degno di rispetto, oppure un vaso da contumelia? 275 Dunque dacché la nostra natura ha peccato nel paradiso, dalla provvidenza divina stessa noi siamo formati non secondo il cielo ma secondo la terra, cioè non secondo lo spirito, ma secondo la carne con una generazione destinata alla morte; e così tutti siamo diventati una massa di fango, che è a dire una massa di peccato. E poiché con il peccato abbiamo perduto il merito e, separati dalla misericordia di Dio, null’altro era dovuto a noi peccatori se non l’eterna condanna, come può l’uomo, da questa massa, mettersi a discutere con Dio e dirgli: Perché mi hai fatto così? Se tu vuoi conoscere queste cose, bisogna che ti tolga da questo fango e che diventi figlio di Dio tramite quella stessa misericordia che ha dato il potere di diventare figli di Dio a coloro che credono nel suo nome, e non a coloro che vorrebbero conoscere i misteri di Dio prima di credere, come vorresti tu. Il conoscere infatti è come una paga che si dà a chi l’ha meritata; e il merito si acquista con il credere. Così anche la grazia, che ci vien data per mezzo della fede, non ci vien data per nessun altro merito precedente. E quale altro merito potrebbe avere il peccatore o l’empio? Cristo però è morto per gli empi e i peccatori 276 affinché al credere noi fossimo chiamati, non per i meriti, ma per la grazia, e così, credendo, anche noi potessimo mettere da parte qualche merito. È per questo che ai peccatori viene comandato di credere, perché proprio col credere si purghino dei peccati. Essi infatti non sanno che cosa avranno davanti se vivono rettamente. Così, non potendo saperlo se non vivono rettamente, e, d’altra parte non potendo vivere rettamente se non credono, è più che chiaro che è dalla fede che bisogna incominciare. Ed è così che i comandamenti, con i quali coloro che credono si distaccano dalle cose di questo mondo, rendono puro il loro cuore, perché è solo con esso che si può vedere Dio. Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio 277. E anche con le parole della profezia si canta: Nella semplicità del cuore cercatelo 278. È giusto quindi quello che vien detto agli uomini che sono immersi nella vecchiezza della vita e hanno l’occhio dell’anima pieno di tenebre: O uomo, e chi sei tu da metterti a discutere con Dio? Oserà forse il vaso plasmato dire a colui che lo plasmò: Perché mi hai fatto così? Forse che il vasaio non è padrone dell’argilla per fare col medesimo impasto un vaso degno di rispetto oppure un vaso da contumelia? Lìberati dal vecchio fermento per diventare un impasto nuovo 279 in cui non restare ancora un bambino in Cristo da dover nutrire sempre col latte 280; fatti uomo una buona volta per trovarti in mezzo a coloro dei quali è detto: Noi parliamo di sapienza tra uomini maturi 281. Solo allora potrai capire in modo retto e non disordinato quali siano i meriti così nascosti delle anime e i segreti della grazia e della giustizia di Dio.
4. Anche a proposito del Faraone si può facilmente rispondere che un tale indurimento del cuore, da non credere neppure ai segni più manifesti del volere divino, era la giusta conseguenza dei precedenti demeriti con i quali aveva perseguitato i forestieri nel suo regno. Da un’unica massa, vale a dire di peccatori, ha tratto fuori vasi di misericordia a cui prestare soccorso, quando i figli d’Israele lo avrebbero invocato, e vasi d’ira, cioè il Faraone e il suo popolo: col loro castigo avrebbe istruiti quelli; perché, sebbene gli uni e gli altri fossero peccatori, e di conseguenza appartenessero all’identica massa, era necessario tuttavia trattare in un modo coloro che avevano supplicato nei gemiti l’unico Dio, perché li soccoresse, e in un altro coloro che li avevano afflitti con ingiusti gravami. Ha sopportato dunque con grande pazienza i vasi di collera, già pronti per la perdizione 282. Con l’espressione con grande pazienza ha indicato a sufficienza i loro precedenti peccati, per i quali li aveva sopportati: li avrebbe vendicati a tempo opportuno, quando dalla loro punizione avrebbe prestato soccorso a quelli che sarebbero stati liberati. E questo per far comprendere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria 283. A questo punto forse sei confuso e ritorni sulla questione precedente. Egli usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole. Perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? 284 Senza dubbio usa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole, eppure questa volontà di Dio non può essere ingiusta. Scaturisce difatti da meriti assai occulti; anche gli stessi peccatori, sebbene a causa del comune peccato costituiscano un’unica massa, non sono tuttavia senza qualche differenza tra loro. In alcuni peccatori precede dunque qualcosa per cui, sebbene non siano ancora giustificati, sono degni di essere giustificati; e in altri peccatori precede ugualmente qualcosa per cui sono meritevoli di ostinazione. Altrove scopri lo stesso Apostolo che dice: Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata 285. Averli abbandonati a un’intelligenza depravata equivale ad aver indurito il cuore del Faraone 286. L’aver disprezzato la conoscenza di Dio è stato il motivo per cui hanno meritato di essere abbandonati a un’intelligenza depravata.
5. È vero però che non dipende dalla volontà né dagli sforzi, ma dalla misericordia di Dio 287. Sebbene, infatti, qualcuno si renda degno della misericordia di Dio con grande gemito e dolore tanto per i peccati più lievi quanto per quelli più gravi e addirittura numerosi, ciò non dipende da lui, che si perderebbe se fosse abbandonato, ma dalla misericordia di Dio che viene in aiuto alle sue preghiere addolorate. Non basta infatti volere se Dio non usa misericordia. Ma Dio, che chiama alla pace, non usa misericordia se non precede la volontà, perché la pace in terra è per gli uomini di buona volontà 288. E poiché nessuno può volere, senza essere prevenuto e chiamato sia interiormente, dove nessun uomo vede, che esteriormente per mezzo della predicazione o di altri segni manifesti, risulta che è Dio a suscitare in noi questo stesso volere 289. Infatti a quella cena, che nel Vangelo il Signore dice di aver preparato, non tutti gli invitati hanno voluto partecipare, e quelli che sono venuti non sarebbero potuti venire senza essere stati invitati 290. Pertanto quelli non devono attribuire a se stessi di essere venuti, perché sono venuti su invito: né devono incolpare altri, ma se stessi, coloro che non sono voluti venire, perché erano chiamati a partecipare in piena libertà. La chiamata dunque suscita la volontà prima del merito. Di conseguenza se qualcuno attribuisce a se stesso di aver corrisposto alla chiamata, non può attribuire a se stesso di essere stato chiamato. Chi invece non ha risposto all’invito, come non ha avuto alcun merito per essere chiamato, così inizia a meritare il castigo per aver trascurato l’invito a venire. Ci saranno così due cose: Canterò, Signore, la tua misericordia e la tua giustizia 291. La chiamata dipende dalla misericordia; dalla giustizia dipende la felicità di coloro che hanno risposto all’appello e il castigo di coloro che hanno rifiutato di venire. Non si rendeva forse conto il Faraone dei vantaggi derivati al suo paese dalla venuta di Giuseppe 292? La conoscenza di questo fatto costituiva dunque per lui l’appello a non essere ingrato, trattando con indulgenza il popolo d’Israele. Rifiutando di corrispondere a quest’invito e rendendosi crudele verso coloro ai quali doveva umanità e indulgenza, ha meritato come punizione l’indurimento del suo cuore e una tale cecità di spirito da non credere ai numerosi e così grandi ed evidenti prodigi di Dio. Con questo castigo dell’ostinazione e del suo definitivo e visibile naufragio in mare, si poteva istruire il popolo che, a motivo della sua sofferenza, il Faraone aveva meritato, sia l’occulta ostinazione del cuore che la manifesta scomparsa tra i flutti 293.
6. Ora questa chiamata, rivolta secondo l’opportunità dei tempi, sia agli individui che ai popoli e all’intero genere umano, è segno di una disposizione elevata e profonda. Ad essa si riferiscono anche queste parole: Io ti ho santificato nel seno materno 294; e: Ti ho visto quando eri ancora nei lombi di tuo padre 295 e: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù 296, che sono state pronunciate prima che essi nascessero. Forse possono comprenderle soltanto coloro che amano il Signore loro Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la loro mente e amano il prossimo come se stessi 297. Fondati in una così grande carità forse possono già comprendere con i santi la lunghezza, l’ampiezza, l’altezza e la profondità 298. Bisogna però ritenere con fermissima fede che Dio non fa nulla d’ingiusto e che non c’è alcuna natura che non debba a Dio ciò che è. A Dio si deve infatti ogni splendore, bellezza e armonia delle parti: se tu l’analizzerai a fondo e la eliminerai dalle cose fino alle ultime parti, non rimane più nulla.
69. - SUL TESTO: ALLORA LO STESSO FIGLIO SARÀ SOTTOMESSO
A COLUI CHE GLI HA SOTTOMESSO OGNI COSA 299
1. Coloro che ribattono che il Figlio di Dio non è uguale al Padre, di solito ricorrono con maggior dimestichezza a questo testo dell’Apostolo che afferma: E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. Non potrebbe infatti sorgere in loro l’errore mascherato del nome cristiano, se non per una cattiva interpretazione della Scrittura. Dicono infatti: Se è uguale, come mai gli sarà sottomesso? La domanda è simile senza dubbio a quella del Vangelo: Se è uguale, come mai il Padre è più grande? Il Signore in persona dice: Il Padre è più grande di me 300. Ora la regola della fede cattolica è questa: quando nelle Scritture si afferma qualcosa per cui il Figlio è inferiore al Padre, lo si intende in rapporto all’umanità [da lui] assunta; quando invece si afferma qualcosa che denota uguaglianza, lo si interpreta in rapporto alla divinità. Risulta dunque chiaro in quale senso è stato detto: Il Padre è più grande di me; e: Io e il Padre siamo uno 301; e: Il Verbo era Dio; e: Il Verbo si è fatto carne; e: Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo 302. Ma poiché molte espressioni, eccetto quanto concerne l’assunzione dell’umanità, si riferiscono a lui secondo la proprietà personale, in modo che per Padre non si può intendere che il Padre e per Figlio non altri che il Figlio, gli eretici ritengono che in quello che viene affermato e interpretato in questo modo non ci può essere uguaglianza. Sta scritto infatti: Tutto è stato fatto per mezzo di lui 303, senza dubbio per mezzo del Figlio, cioè del Verbo di Dio. Da chi, se non dal Padre? Non c’è mai scritto che il Figlio ha fatto qualcosa per mezzo del Padre. È scritto ancora che il Figlio è immagine del Padre 304; ma non è mai scritto che il Padre è immagine del Figlio. Sta scritto inoltre che uno genera e l’altro è generato; e molte espressioni del genere che riguardano non l’ineguaglianza della sostanza ma la proprietà delle Persone. Poiché essi negano che in questi testi l’uguaglianza sia possibile, dal momento che si addentrano in queste cose con una mentalità troppo grossolana, bisogna incalzarli sotto il peso dell’autorità. Se infatti in quelle affermazioni fosse impossibile cogliere l’uguaglianza tra colui per mezzo del quale tutto è stato fatto e colui dal quale è stato fatto, tra l’immagine e colui del quale è immagine, tra il generato e il generante, l’Apostolo, per chiudere la bocca dei contestatori, non avrebbe in alcun modo usato lo stesso vocabolo, dicendo: Non considerò una rapina la sua uguaglianza con Dio 305.
2. Poiché dunque alcuni testi, riguardanti la distinzione del Padre e del Figlio, sono stati scritti in riferimento alla proprietà del Figlio e altri all’assunzione dell’umanità, per salvaguardare la divinità, l’unità e l’uguaglianza del Padre e del Figlio: è giusto domandarsi se l’Apostolo in questo testo aveva di mira le proprietà delle persone o l’assunzione dell’umanità: Allora anche il Figlio sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa 306. Di solito il contesto scritturistico chiarisce la sentenza quando le espressioni circostanti, che si riferiscono alla presente questione, vengono esaminate con un’analisi diligente. Troviamo infatti che l’Apostolo è giunto a questo testo dopo l’affermazione precedente: Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti 307. Trattava quindi della risurrezione dei morti: essa si è verificata nel Signore secondo l’umanità che ha assunto, come afferma con tutta chiarezza in seguito: Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dai morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta (parusiva), quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice: Ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti 308. È chiaro quindi che questo è stato detto in riferimento all’incarnazione dell’uomo.
3. Ma in questo capitolo, di cui ho riportato tutto il testo, altri punti offrono di solito materia di discussione. Innanzitutto l’affermazione: Quando egli consegnerà il regno a Dio e Padre, come se il Padre ora non possedesse il regno. Quindi il passo: Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, come se dopo non dovesse più regnare. A questo sembra riferirsi l’affermazione precedente: Poi sarà la fine. Con sacrilega interpretazione essi l’intendono così, come se la parola fine indicasse la distruzione del suo regno, mentre nel Vangelo è scritto: E il suo regno non avrà fine 309. Da ultimo il testo: E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa; essi lo interpretano così come se ora qualcosa non fosse sottomessa al Figlio o egli stesso non fosse sottomesso al Padre.
4. La questione si scioglie considerando il modo di esprimersi. Spesso infatti la Scrittura, parlando di qualcosa che è da sempre, dice che comincia ad esistere in qualcuno, quando questi la conosce. Così nella preghiera del Signore noi diciamo: Sia santificato il tuo nome 310, quasi che in un certo tempo non fosse santo. Come dunque sia santificato sta per "sia riconosciuto come santo", così anche le parole: Quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, stanno per "quando avrà mostrato che il Padre regna", sicché per mezzo della visione e della manifestazione risulti chiaro ciò che ora i fedeli credono e gli infedeli rifiutano. Poi ridurrà al nulla ogni principato e potestà, manifestando senza dubbio il regno del Padre, affinché a tutti sia noto che nessun principato e potestà in cielo e in terra ha avuto da se stesso alcunché del suo potere e dominio, ma l’ha avuto da colui dal quale tutto procede, sia nel campo dell’esistenza che dell’ordinamento. In quella manifestazione nessuno infatti avrà più speranza in qualche principe o in qualche uomo. È quanto già sin d’ora viene cantato con voce profetica: È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo; è meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti 311. In questa meditazione l’anima si eleva fin d’ora al regno del Padre, senza fare affidamento sul potere di qualcuno al di fuori di lui, e tanto meno illudersi pericolosamente del proprio. Consegnerà dunque il regno a Dio Padre quando, grazie a lui, si conoscerà il Padre visibilmente. Suo regno sono infatti coloro nei quali ora regna per mezzo della fede. Invero in un modo si parla del regno di Cristo in rapporto al potere della divinità: in questo senso ogni creatura gli è sottomessa; in un altro si parla del suo regno che è la Chiesa, in rapporto alla fede che possiede; in questo senso prega colui che dice: Prendi possesso di noi 312. Nulla infatti è sottratto al suo possesso. In questo senso si dice anche: Quando eravate schiavi del peccato, eravate liberi riguardo alla giustizia 313. Ridurrà dunque al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza, sicché nessuno, che vede il Padre per mezzo del Figlio, abbia bisogno o si compiaccia di confidare nel potere personale o di qualche creatura.
5. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi 314. Bisogna, cioè, che il suo regno si manifesti così apertamente che tutti i suoi nemici ammettano che egli regna. Questo infatti vuol dire che i suoi nemici saranno sotto i suoi piedi. Se invece lo riferiamo ai giusti, la parola nemici è detta nel senso che da ingiusti diventano giusti e si sottomettono a lui con la fede. Quanto poi agli ingiusti, che non apparterranno alla beatitudine futura dei giusti, bisogna intenderlo nel senso che anch’essi, nella stessa manifestazione del suo regno, pieni di confusione riconosceranno che egli regna. Di conseguenza il testo: Bisogna che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, non significa che in seguito, dopo aver posto i nemici sotto i suoi piedi, non regnerà più, ma con la frase: Bisogna che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, afferma che è necessario innalzare il suo regno a così grande splendore che i suoi nemici non oseranno in alcun modo negare che egli regna. Infatti sta scritto anche: I nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi 315. Questo non significa però che, dopo aver avuto pietà di noi, dobbiamo distogliere il nostro sguardo da lui, perché la nostra felicità è in rapporto alla gioia della sua contemplazione. Questo è dunque il senso del testo. L’attenzione dei nostri occhi è rivolta al Signore per ottenere la sua misericordia, non per distogliersi in seguito ma per non chiedere più nient’altro. Finché sta quindi al posto di nient’altro. Che c’è infatti di più, ossia con quale maggiore manifestazione si manifesterà il regno di Cristo se non al punto che tutti i nemici riconosceranno che egli regna? Dunque altro è non manifestarsi più, altro non essere più. Non manifestarsi più significa non rivelarsi più apertamente; non essere più vuol dire non durare ulteriormente. E quando mai il regno di Cristo apparirà più chiaramente di quando risplenderà davanti a tutti i nemici?
6. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte 316. Quando questo corpo mortale sarà rivestito d’immortalità non ci sarà più nient’altro da distruggere. Tutto ha posto sotto i suoi piedi: questo sta ad indicare anche la distruzione della morte. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta - l’ha detto effettivamente il Profeta nei Salmi 317 -, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha sottomesso ogni cosa: vuol far capire che il Padre ha sottoposto ogni cosa al Figlio, come lo stesso Signore insegna e predica in molti passi del Vangelo, non solo a motivo della forma di servo, ma anche a motivo del principio da cui procede e per il quale è uguale a colui dal quale procede. Si compiace infatti di riferire tutto ad un unico principio, di cui è immagine 318 e in cui abita tutta la pienezza della divinità 319.
7. E quando tutto gli sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa 320. Non perché ora non sia così, ma perché allora sarà chiaro, secondo il modo di esprimersi spiegato sopra. Perché Dio sia tutto in tutti; egli è la fine, menzionata precedentemente, quando ha voluto inizialmente riassumere tutto sinteticamente e in seguito spiegarlo ed esporlo dettagliatamente. Parlava infatti della risurrezione: Prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine. Egli stesso è la fine, perché Dio sia tutto in tutti. In un senso si parla della fine che esprime compimento, in un altro quando esprime consunzione. Altro è finire un vestito tessendolo, altro finire il cibo, mangiandolo. Si dice poi che Dio è tutto in tutti nel senso che nessuno di coloro che aderiscono a lui, ami contro di lui la propria volontà e sia chiaro a tutti ciò che lo stesso Apostolo dice in un altro passo: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? 321
8. Vi sono poi alcuni che intendono questo testo: Bisogna che egli regni finché ponga tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, dicendo che qui il termine regnare è preso in un altro significato diverso da quello di regno nella frase: Quando avrà consegnato il regno a Dio e Padre. L’Apostolo avrebbe detto regno nel senso che Dio regge tutto il creato; e avrebbe detto regnare nel senso di condurre un esercito contro il nemico o difendere una città. Pertanto avrebbe detto: Bisogna che egli regni finché ponga tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, perché un regno, simile a quello che hanno i capi di esercito, non ha più ragione di essere quando il nemico è stato così assoggettato da non potersi più ribellare. Nel Vangelo si dice infatti: E il suo regno non avrà fine 322, nel senso che regnerà in eterno. Quanto poi alla lotta da condurre sotto di lui contro il diavolo, lotta che durerà certamente finché mai porrà tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, dopo non ci sarà più, perché godremo una pace eterna.
9. Questo è stato detto per farci capire che bisogna riflettere con maggior diligenza anche su questo punto: qual è attualmente il regno del Signore nell’economia del suo mistero, secondo l’incarnazione e la passione. Poiché in quanto Verbo di Dio il suo regno come non ha fine, così non ha né inizio né interruzione. Ma in quanto Verbo fatto carne 323 ha cominciato a regnare nei credenti per mezzo della fede nella sua incarnazione. Come appare anche dal testo: Il Signore ha regnato dal legno 324. Qui ha ridotto al nulla ogni principato, ogni potere e potenza, poiché quelli che credono in lui vengono salvati non per la sua esaltazione ma per la sua umiltà. Questo è stato nascosto ai sapienti e agli intelligenti e rivelato ai piccoli 325; perché a Dio è piaciuto salvare i credenti con la stoltezza della predicazione 326. E l’Apostolo afferma, in mezzo ai piccoli, di non sapere altro, se non Gesù Cristo e questi crocifisso 327. C’è bisogno di questa predicazione finché tutti i nemici saranno posti sotto i suoi piedi, finché tutta la superbia del mondo ceda e si sottometta alla sua umiltà, che mi sembra indicata col termine "piedi". In gran parte questa si è già realizzata e ogni giorno la vediamo realizzarsi. Ma perché ciò accade? Per consegnare il regno a Dio e Padre, per portare cioè alla visione della sua uguaglianza col Padre quelli che si sono nutriti, con fede, della sua incarnazione. Egli si rivolgeva infatti a quelli che già avevano creduto, quando diceva: Se rimanete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi 328. Consegnerà il regno al Padre, quando, mediante ciò, per cui è uguale al Padre, regnerà in quelli che contemplano la verità e in se stesso, che è l’Unigenito, farà vedere il Padre in visione. Ora regna infatti nei credenti mediante la sua umiliazione, con la quale spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo 329. Ma allora consegnerà il regno a Dio e Padre, quando avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e potenza. Come li annienterà se non con l’umiltà, la pazienza e la debolezza? Quale principato non sarà annullato, quando il Figlio di Dio regna sui credenti proprio perché i principi di questo mondo lo hanno giudicato? Quale potestà non sarà annullata quando colui, per cui tutto è stato fatto, regna sui credenti proprio perché si è talmente assoggettato alle potestà da dire a un uomo: Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto 330? Quale potenza non sarà annullata quando colui, per mezzo del quale sono stati stabiliti i cieli, regna sui credenti proprio perché ha provato la debolezza sino alla croce e alla morte? Proprio in questo modo il Figlio regna nella fede dei credenti. Non si può infatti dire né credere che il Padre si è incarnato o è stato giudicato o crocifisso. Ma nella visione, per cui è uguale al Padre, regna insieme a lui in coloro che contemplano la verità. Poi consegnerà il regno a Dio e Padre, conducendo dalla fede nella sua incarnazione alla visione della divinità quanti ora credono in lui. Egli non lo perderà, ma entrambi si offriranno alla contemplazione come unico oggetto di godimento. È necessario che Cristo regni ancora a lungo negli uomini, ancora incapaci di vedere con mente chiara e luminosa l’uguaglianza del Padre e del Figlio, proprio perché tali uomini possano capire anche ciò che egli ha assunto in proprio, cioè l’umiltà dell’incarnazione, finché non ponga tutti i nemici sotto i suoi piedi, finché, in altre parole, tutta la superbia del mondo non venga sottomessa all’umiltà della sua incarnazione.
10. A ragione è stato detto: Allora anche il Figlio sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa 331, sebbene si riferisca all’assunzione dell’umanità, dato che la questione è sorta discutendo della risurrezione dei morti, è tuttavia giusto chiedersi se sia stato detto di lui solo, come capo della Chiesa 332, oppure del Cristo totale, che comprende insieme il corpo e le membra. Infatti quando dice ai Galati: La Scrittura non dice: E ai tuoi discendenti, come se si trattasse di molti ma: " alla tua discendenza ", come a uno solo, cioè Cristo, perché in questo passo non intendessimo soltanto Cristo, nato dalla vergine Maria, aggiunge: Tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo 333. E parlando ai Corinzi della carità, ricavando il paragone dalle membra del corpo, dice: Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo 334. Non ha detto: così anche di Cristo, ma: così anche Cristo, mostrando che si può giustamente parlare anche del Cristo totale, cioè il capo con il suo corpo, che è la Chiesa. In molti passi della Scrittura troviamo che si parla di Cristo in modo da intenderlo con tutte le sue membra, alle quali è stato detto: Voi siete corpo di Cristo e sue membra 335. Non è quindi assurdo intendere nel testo: Allora anche il Figlio sarà sottomesso a colui che gli ha sottomesso ogni cosa, che si tratta non solo del Figlio, capo della Chiesa, ma anche di tutti i santi insieme a lui, che sono uno in Cristo, una sola discendenza di Abramo. La sottomissione poi si riferisce alla contemplazione dell’eterna verità, senza che al conseguimento della beatitudine si opponga alcun movimento dell’animo o qualche membro del corpo: Perché, nella vita in cui nessuno ama il proprio potere, Dio sia tutto in tutti.
70. - SULLE PAROLE DELL’APOSTOLO: LA MORTE È STATA INGOIATA
PER LA VITTORIA. DOV’È, O MORTE, LA TUA VITTORIA? DOV’È, O
MORTE, IL TUO PUNGIGLIONE? IL PUNGIGLIONE DELLA MORTE
È IL PECCATO E LA FORZA DEL PECCATO È LA LEGGE 336
Si è soliti chiedere quale sia il significato delle parole: Allora avverrà quello che è stato scritto: " La morte è stata ingoiata per la vittoria ". Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. In questo testo per morte ritengo che s’intenda l’impulso carnale che resiste alla buona volontà, a causa del compiacimento dei piaceri temporali. Non si direbbe infatti: Dov’è, o morte, la tua contesa? se non vi fosse opposizione e contrasto. La sua contesa è descritta anche in un altro testo: La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste 337. Pertanto con la santità perfetta si realizza la sottomissione di ogni appetito carnale al nostro spirito illuminato e vivificato, cioè alla buona volontà. E come ora costatiamo di essere liberi da molti capricci puerili che da piccoli, se ci fossero stati negati, ci avrebbero afflitto assai aspramente, così bisogna credere che avverrà di ogni piacere carnale, quando la santità perfetta avrà riformato integralmente l’uomo. Ora però, finché in noi c’è qualcosa che si oppone alla buona volontà, abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio mediante uomini e angeli buoni, perché la nostra ferita, in attesa della guarigione, non ci tormenti al punto da uccidere anche la buona volontà. Abbiamo meritato questa morte col peccato: peccato che prima si trovava totalmente nel libero arbitrio, quando, in paradiso, nessun dolore per un piacere negato resisteva alla buona volontà dell’uomo, come succede adesso. Se uno, ad esempio, non si è mai appassionato alla caccia, è assolutamente libero di volere o non volere andare a caccia. Chi glielo proibisse non lo angustierebbe affatto. Ma se, abusando malamente di questa libertà, andrà a cacciare contro l’ordine che lo vieta, il piacere che s’infiltra furtivamente fa morire l’anima a poco a poco, sicché, se volesse astenersene, non potrebbe senza dispiacere e tristezza, mentre prima avrebbe agito con tutta tranquillità. Quindi il pungiglione della morte è il peccato, perché col peccato è seguito il piacere che ora può opporsi alla buona volontà e si può reprimere solo con dolore. Abbiamo ragione di chiamare morte questo piacere, perché è a detrimento dell’anima, divenuta peggiore. E la forza del peccato è la legge: perché la scelleratezza e l’empietà nel commettere ciò che la legge proibisce è maggiore di ciò che non è vietato da alcuna legge. Allora finalmente la morte sarà ingoiata per la vittoria, quando, in virtù della piena santificazione dell’uomo, il piacere carnale sarà soppiantato dal gaudio perfetto delle cose spirituali.
71. - SULLE PAROLE DELLA SCRITTURA: PORTATE I PESI GLI UNI
DEGLI ALTRI E COSÌ ADEMPIRETE LA LEGGE DI CRISTO 338
1. Poiché l’osservanza dell’Antico Testamento si basava sul timore, non si poteva dire più chiaramente che il dono del Nuovo Testamento è la carità come in questo testo, dove l’Apostolo dice: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo. Si capisce bene perché egli parla di questa legge di Cristo: il Signore stesso ci ha comandato di amarci a vicenda, attribuendo così grande importanza a questa sentenza da affermare: Da questo sapranno che siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri 339. Questo amore impone di portare vicendevolmente i nostri pesi. Ma questo dovere, che non è eterno, condurrà certamente alla beatitudine eterna, dove non ci saranno più quei pesi che ci è comandato di portare scambievolmente. Ma attualmente, durante questa vita, mentre cioè siamo in via, portiamo a vicenda i nostri pesi per poter arrivare a quella vita priva di ogni peso. Come hanno scritto alcuni studiosi di tali materie riguardo ai cervi : quando [questi animali] guadano un corso d’acqua verso un’isola alla ricerca di pascoli, si allineano in modo da porre gli uni sugli altri il peso delle loro teste, appesantite dalle corna, cosicché quello che segue, allungando il collo, posa la testa sul precedente. E poiché è necessario che uno preceda gli altri, senza avere nessuno davanti a sé su cui appoggiare la testa, si dice che facciano a turno: chi precede, affaticato dal peso della testa, retrocede all’ultimo posto e gli succede quello di cui sosteneva la testa, quando esso guidava [il branco]. E così, portando a vicenda i loro pesi, passano il guado fino a raggiungere la terraferma. Salomone alludeva forse alla natura dei cervi, quando diceva: L’amabile cervo e la gazzella graziosa s’intrattengano con te 340. Niente dimostra tanto bene l’amicizia quanto il portare il peso dell’amico.
2. Non porteremmo tuttavia vicendevolmente i nostri pesi se quelli che portano i propri pesi fossero contemporaneamente soggetti alla malattia o allo stesso genere di malattia. Ma tempi diversi e diversi generi di infermità ci permettono di portare a vicenda i nostri pesi. Sopporterai, ad esempio, l’ira del fratello, se non ti adiri contro di lui, e viceversa, quando tu sarai preso dall’ira, egli ti sopporterà con dolcezza e serenità. Questo esempio fa al caso di coloro che portano vicendevolmente i pesi in tempi diversi, sebbene l’infermità sia la stessa. Entrambi infatti sopportano l’ira vicendevole. Consideriamo invece un altro esempio che riguarda un diverso genere d’infermità. Se uno è riuscito a vincere la propria loquacità, ma non ancora l’ostinazione, mentre l’altro è tuttora loquace, ma non più ostinato, il primo deve sopportare con carità la loquacità del secondo e questi l’ostinazione del primo, finché il difetto dell’uno e dell’altro sia guarito in entrambi. È certo che se l’identica infermità si riscontrasse in tutti e due contemporaneamente, essi non sarebbero capaci di sopportarsi vicendevolmente, perché si rivolgerebbe contro loro stessi. Invece due persone adirate possono accordarsi e sopportarsi contro una terza, sebbene non si debba dire che si sopportano ma piuttosto che si consolano a vicenda. Così anche due persone afflitte per lo stesso motivo si aiutano e in qualche modo si appoggiano l’una all’altra molto più che se una fosse afflitta e l’altra lieta; se invece fossero tristi l’una contro l’altra, non potrebbero affatto sopportarsi. In tali situazioni è opportuno pertanto condividere alquanto la stessa infermità da cui vuoi liberare l’altro col tuo aiuto. Bisogna condividerla per aiutare l’altro non per equiparare la miseria, come fa colui che si china a porgere la mano a chi è a terra. Non si prosterna infatti per rimanere entrambi a terra, ma si curva soltanto per sollevare chi è a terra.
3. Nessun motivo permette di compiere tanto generosamente questo compito gravoso di portare i pesi degli altri, quanto il pensiero di ciò che ha sopportato il Signore per noi. Per questo l’Apostolo ci ammonisce con le parole: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce 341. Più sopra aveva detto: Nessuno cerchi il proprio interesse ma quello degli altri 342. A questa raccomandazione ha collegato ciò che è stato detto; infatti così prosegue: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, proprio per questo scopo: come il Verbo si è fatto carne, è venuto ad abitare in mezzo a noi 343 e, pur essendo senza peccato, ha preso su di sé i nostri peccati e si è curato dei nostri interessi non dei suoi, così anche noi, secondo il suo esempio, portiamo vicendevolmente di buon animo i nostri pesi.
4. A questa considerazione se ne aggiunge ancora un’altra: egli ha assunto la natura umana, noi invece siamo uomini. Dobbiamo perciò tener presente che l’infermità sia dell’anima che del corpo, riscontrata in un altro uomo, avremmo potuta averla anche noi o possiamo averla. Mostriamo dunque a colui, di cui vogliamo alleviare l’infermità, la stessa delicatezza che desidereremmo da lui se per caso ci trovassimo in quella infermità, da cui egli fosse esente. A questo si riferisce lo stesso Apostolo che, pensando di potersi trovare anch’egli nella medesima difficoltà da cui desiderava liberare l’altro, dice: Mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti 344. Egli si comportava così per compassione, non per ipocrisia, come sospettano alcuni, e soprattutto coloro che, per difendere le loro innegabili menzogne, ricercano il patrocinio di qualche esempio insigne.
5. C’è poi un’altra considerazione: non esiste uomo che non possa avere qualche bene, magari nascosto, che tu non possieda ancora e in cui potrebbe esserti certamente superiore. Questa riflessione serve a reprimere e ad eliminare l’orgoglio.Perché senza dubbio le tue buone qualità eccellono e sono manifeste, non penserai perciò che un altro non possa avere anch’egli buone qualità, per il motivo che sono nascoste e probabilmente di maggior pregio, per le quali è superiore a te che non lo sai. L’Apostolo comanda di non ingannarci o meglio di non illuderci, quando dice: Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso 345. La nostra considerazione deve essere vera e non finta; dobbiamo credere realmente che negli altri ci possa essere qualcosa di nascosto per cui ci supera, anche se la nostra qualità, per la quale sembriamo migliori di lui, non è celata. Queste considerazioni che smussano l’orgoglio e stimolano la carità, ci permettono di portare vicendevolmente i pesi dei fratelli, non solo di buon animo ma addirittura con grandissimo piacere. Bisogna assolutamente astenersi dal giudicare uno sconosciuto, e non si conosce nessuno se non per mezzo dell’amicizia. Ecco il motivo per cui sopportiamo con maggior facilità le debolezze degli amici, perché le loro buone qualità ci allietano e ci attirano.
6. Non si deve quindi rifiutare l’amicizia di alcuno che entra in relazione per stringere amicizia; questo non vuol dire che bisogna accoglierlo precipitosamente, ma desiderare d’accoglierlo, trattandolo in modo da poterlo accogliere. Possiamo dire di avere accolto in amicizia colui al quale osiamo confidare tutte le nostre intenzioni. E se c’è qualcuno che non osa presentarsi per stringere amicizia, tenuto lontano da qualche nostra carica o dignità sociale, bisogna abbassarsi fino a lui e manifestargli con modestia e affabilità d’animo quanto non ardisce chiedere personalmente. Certamente, anche se di rado, ma talvolta capita, quando vogliamo ricevere qualcuno in amicizia, di conoscere i suoi lati negativi prima dei buoni: offesi, e in certo modo urtati dai difetti, lo respingiamo senza preoccuparci di scoprire le sue buone qualità che sono forse più latenti. Pertanto il Signore Gesù Cristo, che ci vuole suoi imitatori, ci ammonisce a tollerare i suoi difetti per giungere, con la pazienza della carità, a qualche dote positiva, piacevole e riposante. Dice infatti: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati 346. Se dunque per amore di Cristo non dobbiamo respingere dal cuore neppure uno che forse è totalmente infermo, poiché può essere risanato dal Verbo di Dio, tanto meno dobbiamo respingere uno che può sembrarci del tutto infermo, perché siamo stati incapaci di tollerare alcuni suoi difetti all’inizio dell’amicizia e, ciò che è più grave, abbiamo osato per antipatia esprimere un giudizio temerario e precipitoso su tutta la persona, indifferenti al detto: Non giudicate, per non essere giudicati, e: Con la misura con la quale giudicate sarete misurati anche voi 347. Spesso appaiono prima i lati positivi: anche qui bisogna guardarci dal giudizio affrettato di benevolenza perché, prendendo tutto per buono, i lati negativi, che appaiono dopo, non ti colgano alla sprovvista e impreparato, procurando un danno più grave, sì da odiare con maggior rancore colui che hai amato sconsideratamente: il che è ingiusto! Anche se da principio non appaia alcuna sua qualità e risaltino invece per primi i lati che poi risultano spiacevoli, bisogna tuttavia sopportarli, finché tu possa applicare con lui i rimedi adatti di solito a correggere tali difetti. A maggior ragione le precedenti buone qualità servono da garanzia per spingerci a tollerare i difetti che si scorgono dopo.
7. È dunque la legge stessa di Cristo che ci impegna a portare vicendevolmente i nostri pesi. Amando Cristo è facile sopportare la debolezza altrui, anche di uno che non amiamo ancora per le sue buone qualità. Pensiamo che il Signore, che noi amiamo, è morto per lui. L’apostolo Paolo ci ha inculcato questa carità con le parole: Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 348 Se dunque noi amiamo di meno il debole a causa del motivo che lo rende debole, consideriamo in lui chi è morto per lui. Ora non amare Cristo non è debolezza: è morte! Bisogna quindi riflettere con grande attenzione e, implorando la misericordia di Dio, non trascurare Cristo a causa di un infermo, quando dobbiamo amare il debole per amore di Cristo.
72. - I TEMPI ETERNI
Si può ricercare il senso delle parole dell’apostolo Paolo: Prima dei tempi eterni 349. Se infatti sono tempi, in che senso sono eterni? E se eterni, in che senso sono tempi? A meno che non abbia voluto dire: prima di tutti i tempi. Perché se avesse detto prima dei tempi, senza aggiungere eterni, si potrebbe intendere: prima di alcuni tempi, che però erano preceduti da altri tempi. Invece in luogo di "tutti" ha preferito dire eterni, forse perché il tempo non ha avuto inizio dal tempo. O forse con tempi eterni ha voluto indicare l’evo, che differisce dal tempo, perché quello è stabile, mentre il tempo è mutevole?
73. - SUL TESTO SCRITTURISTICO: APPARSO IN FORMA UMANA 350
1. Noi parliamo di abito in molti sensi : o dell’abito dell’animo, come può essere l’apprendimento di qualche scienza, approfondito e consolidato dall’uso, o dell’abito del corpo: in questo senso diciamo che uno è più vigoroso e più forte di un altro, ma di solito è più appropriato parlare di costituzione; o dell’abito che si adatta esternamente alle nostre membra, per cui diciamo che uno è vestito, calzato, armato e altre cose del genere. È chiaro che in tutti questi casi - poiché il termine deriva dal verbo avere [habere] - si parla di abito in rapporto a qualcosa che si aggiunge a qualcuno, sicché potrebbe anche non averlo. Infatti anche la scienza appartiene all’animo e il vigore e la forza al corpo; non c’è dubbio che il vestito e l’armatura si aggiungono alle nostre membra: di modo che l’animo potrebbe anche essere ignaro se non vi si aggiungesse la scienza, e il corpo debole e languido senza l’umore viscerale e il vigore; e l’uomo potrebbe essere nudo senza il vestito, disarmato senza le armi e scalzo senza le scarpe. La parola abito perciò si dice di una cosa che, per averla in noi, si aggiunge. C’è tuttavia una differenza: alcuni accidenti diventano abiti senza venire da noi modificati, ma ci cambiano in loro, poiché rimangono integri e immutati: così la sapienza, quando si aggiunge all’uomo, non cambia se stessa ma l’uomo, che da stolto rende sapiente. Altri accidenti invece cambiano e sono cambiati: così il cibo, perdendo la sua natura, si trasforma nel nostro corpo e noi, ristorati dal cibo, passiamo dall’anemia e dalla debolezza alla forza e alla salute. C’è una terza classe di accidenti che si modificano per diventare abito e in un certo modo prendono forma, come il vestito, da coloro a cui fanno da abito: quando infatti è deposto o gettato via perde la forma che assume mentre si indossa e riveste le membra. Indossato prende dunque una forma che non mantiene quando è tolto, mentre le membra, spogliate o vestite, rimangono sempre le stesse. Ci può essere anche una quarta classe, quella degli accidenti che diventano abito senza modificare le cose a cui si adattano e senza essere cambiate da esse, come, per non sottilizzare troppo, l’anello al dito. Però questa categoria, se fai bene attenzione, o non esiste affatto o è rarissima.
2. Quando dunque l’Apostolo parlava del Figlio unigenito di Dio in rapporto alla sua divinità, per cui è vero Dio, ha detto che è uguale al Padre: il che non è stato per lui una rapina, come se volesse appropriarsi di una cosa d’altri perché, rimanendo sempre in quell’uguaglianza, poteva rifiutare di rivestire l’umanità e di apparire uomo agli uomini. Ma spogliò se stesso, non cambiando la propria natura, ma assumendo la condizione di servo, senza cambiarsi o trasformarsi in un uomo, perdendo la natura immutabile, ma assumendo una vera umanità. Egli stesso, che l’ha assunta, divenendo simile agli uomini, non a se stesso ma a coloro ai quali è apparso nell’umanità, è apparso in forma umana 351, cioè, prendendo l’umanità è stato riconosciuto uomo. Non poteva infatti essere riconosciuto da coloro che avevano il cuore impuro e non potevano vedere il Verbo presso il Padre, se non accogliendo quello che potevano vedere e per mezzo del quale venivano guidati a quella luce interiore. Ora questo abito non appartiene alla prima classe, perché la natura umana, restando se stessa, non ha alterato la natura divina; né alla seconda, perché l’uomo non ha cambiato Dio, e non è stato cambiato da lui; né alla quarta, poiché l’umanità non è stata così assunta da mutare Dio o da essere mutata da lui. Appartiene invece alla terza: l’umanità è stata assunta in modo da essere cambiata in meglio e da lui trasformata in una forma ineffabilmente più eccellente e più intima del vestito indossato dall’uomo. L’Apostolo col termine abito ha dunque espresso a sufficienza il senso di ciò che ha detto: Divenendo simile agli uomini, non perché si è trasformato in un uomo ma perché, quando si è rivestito dell’umanità, ha preso la condizione umana, che egli, unendo a sé e conformandola in un certo modo, ha associato all’immortalità e all’eternità. Ora l’abito, che consiste nell’acquisizione della sapienza e della scienza, in greco si dice ; quest’altro invece, per cui diciamo che uno è vestito o armato, si dice piuttosto schèma. Da qui si comprende che l’Apostolo parlava di abito in questo senso: nei testi greci è scritto: e noi in latino abbiamo habitus. Con questo termine si deve intendere che il Verbo non si è mutato assumendo l’umanità, come non mutano le membra quando indossano un vestito, sebbene a questa assunzione abbia unito in modo ineffabile quello che veniva assunto a colui che l’assumeva. Ma per quanto le parole umane possano applicarsi a cose ineffabili, perché non si ritenga che Dio si sia mutato assumendo la fragilità umana, per esprimere questa assunzione si è scelto il termine greco: e il latino: habitus.
74. - SUL TESTO DELLA LETTERA DI PAOLO AI COLOSSESI:
In LUI ABBIAMO LA REDENZIONE E LA REMISSIONE DEI PECCATI,
EGLI È IMMAGINE DEL DIO INVISIBILE 352
Bisogna distinguere immagine, uguaglianza e somiglianza: dove c’è immagine c’è immediatamente somiglianza, non necessariamente uguaglianza; dove c’è uguaglianza c’è anche somiglianza, non necessariamente immagine; dove c’è somiglianza non necessariamente c’è immagine e uguaglianza. L’immagine comporta necessariamente la somiglianza ma non l’uguaglianza: nello specchio, ad esempio, c’è l’immagine dell’uomo, perché vi si riflette; c’è anche necessariamente la somiglianza, non però l’uguaglianza, perché all’immagine mancano molti elementi che invece appartengono alla realtà da cui è prodotta. L’uguaglianza comporta senz’altro la somiglianza, non necessariamente l’immagine; ad esempio, in due uova identiche, poiché c’è uguaglianza c’è anche somiglianza. Tutto ciò che è in uno si trova anche nell’altro. Non c’è però l’immagine, perché uno non è il riflesso dell’altro. La somiglianza non comporta affatto immagine e uguaglianza; ogni uovo, infatti, in quanto uovo, è simile ad ogni altro uovo, ma l’uovo di pernice, sebbene come uovo sia simile all’uovo di gallina, non è tuttavia sua immagine, perché non è stato tratto da quello; non è uguale, perché è più piccolo e di un’altra specie animale. Ma quando si dice: non necessariamente, si intende evidentemente che talvolta può capitare. Ci può essere dunque un’immagine in cui c’è anche uguaglianza. Tra genitori e figli, ad esempio, si troverebbe immagine, uguaglianza e somiglianza, se non ci fosse intervallo di tempo. Infatti la somiglianza del figlio deriva dal genitore, sicché si può giustamente parlare di immagine e questa può essere così grande da dirsi a ragione uguaglianza, a parte la precedenza di tempo del genitore. Da ciò si capisce che talvolta l’uguaglianza comporta non solo la somiglianza ma anche l’immagine, come risulta dall’esempio precedente. Qualche volta ci può essere somiglianza e uguaglianza, sebbene non vi sia immagine, come si è detto di uova identiche. Può esservi anche somiglianza e immagine, sebbene non vi sia uguaglianza, come abbiamo mostrato nel caso dello specchio. Può esservi anche somiglianza dove c’è uguaglianza e immagine, come abbiamo notato dei figli, eccettuata la precedenza temporale dei genitori. Così diciamo che una sillaba è uguale ad un’altra, sebbene una sia prima e l’altra dopo. Ma, poiché in Dio si esclude la condizione temporale - non si può infatti ragionevolmente immaginare che Dio abbia generato nel tempo il Figlio, per mezzo del quale ha creato i tempi - ne consegue che egli non solo è sua immagine, perché procede da lui, e somiglianza, perché sua immagine 353, ma anche uguaglianza così perfetta da escludere l’ostacolo dell’intervallo temporale.
75. - L’EREDITÀ DI DIO
1. Come dice l’Apostolo agli Ebrei: Un testamento ha valore dopo la morte del testatore 354, conclude quindi che il Nuovo Testamento è entrato in vigore, quando Cristo è morto per noi. Il Vecchio Testamento era la sua immagine; in esso la morte del testatore era prefigurata per mezzo della vittima sacrificale. Se dunque si domanda come mai noi, a dire dello stesso Apostolo, siamo coeredi di Cristo, figli ed eredi di Dio 355 - dal momento che anche l’eredità è resa stabile dalla morte del defunto, né l’eredità si può concepire in altro modo -, si risponderà che siamo diventati eredi con la sua morte, poiché siamo stati chiamati anche suoi figli. Egli dice: I figli dello sposo non digiunano quando lo sposo è con loro 356. Siamo dunque chiamati suoi eredi perché ci ha lasciato, in virtù della fede nell’economia temporale, il possesso della pace della Chiesa, che possediamo in questa vita, come ha attestato dicendo: Vi lascio la pace, vi dò la mia pace 357. Diventeremo poi suoi coeredi, quando, alla fine del mondo, la morte sarà assorbita nella vittoria 358. Allora saremo infatti simili a lui, poiché lo vedremo così come egli è 359. Non otteniamo questa eredità con la morte del Padre suo, che non può morire; anzi egli è la nostra eredità, secondo quanto sta scritto: Il Signore è mia parte di eredità 360. Ma poiché, quando siamo stati chiamati ancor piccoli e inadatti a contemplare le realtà spirituali, la divina misericordia si è abbassata sino ai nostri più umili pensieri, perché ci sforzassimo in qualche modo di scorgere quanto non vedevamo con chiarezza ed evidenza: e così muore la stessa conoscenza confusa, quando inizierà la visione faccia a faccia. È infatti opportuno dire che morirà ciò che sarà tolto: Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà 361. Così, in un certo senso, il Padre muore per noi in enigma ed egli stesso diventa l’eredità, quando lo vedremo faccia a faccia; non già che egli muoia ma perché la visione imperfetta che abbiamo di lui è abolita dalla visione perfetta. Se però prima quella non ci alimentasse, noi non diverremmo capaci dell’altra pienissima e chiarissima.
2. Ora se il pio intelletto ammette questo anche del Signore Gesù Cristo - non in quanto Verbo, che in principio era presso Dio 362, ma in quanto bambino, che cresceva in età e sapienza 363, salva l’umanità che ha assunto in proprio e non ha in comune con gli altri uomini -, è chiaro che egli entra in possesso dell’eredità mediante la sua morte. Non potremmo infatti essere coeredi, se egli stesso non fosse erede. Se invece la fede non ammette questo, che cioè l’uomo assunto dal Signore prima abbia avuto una visione parziale e poi totale, sebbene sia stato detto che progrediva in sapienza, bisogna intendere l’erede nel suo corpo, che è la Chiesa, di cui siamo coeredi, come diciamo di essere figli di quella madre, sebbene sia composta da noi stessi.
3. Ma si può ancora domandare: con la morte di chi siamo diventati anche noi eredità di Dio, secondo il detto: Ti darò in eredità le genti 364? Forse con la morte di questo mondo che prima ci teneva sotto il suo dominio? Ma dopo, quando noi diciamo: Il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo 365, Cristo ci possiede, una volta morto quello che ci dominava. Quando rinunziamo al mondo, noi moriamo al mondo e il mondo a noi.
76. - SULLE PAROLE DELL’APOSTOLO GIACOMO:
MA VUOI SAPERE, O INSENSATO, COME
LA FEDE SENZA LE OPERE È SENZA VALORE? 366
1. Poiché l’apostolo Paolo, affermando che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere, non è stato bene compreso da quanti hanno interpretato la frase in modo da ritenere che, dopo avere una volta creduto in Cristo, anche se agissero male e conducessero una vita criminosa e perversa, possono ugualmente salvarsi grazie alla fede, il passo di questa lettera 367 espone come si deve intendere il pensiero stesso dell’apostolo Paolo. Si serve perciò di preferenza dell’esempio di Abramo per dimostrare che la fede, se non opera il bene, è vana. Anche l’apostolo Paolo si è servito dell’esempio di Abramo per confermare che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere della legge 368. Quando ricorda le buone opere di Abramo, che hanno accompagnato la sua fede, mostra a sufficienza che l’apostolo Paolo non ha affatto insegnato, con l’esempio di Abramo, che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere, sicché chi crede non si preoccupi di operare il bene. Ma ha piuttosto insegnato che nessuno deve ritenere di essere giunto per i meriti delle opere precedenti al dono della giustificazione che dipende dalla fede. In questo senso i Giudei si ritenevano superiori ai pagani che credevano in Cristo, in quanto dicevano di essere giunti alla grazia del Vangelo per i meriti delle buone opere prescritte dalla legge. Inoltre molti di coloro che avevano creduto erano scandalizzati perché la grazia di Cristo veniva conferita a pagani incirconcisi. Per questo motivo l’apostolo Paolo afferma che l’uomo può essere giustificato dalla fede senza le opere precedenti. Infatti chi è giustificato dalla fede, come potrebbe in seguito operare diversamente se non secondo giustizia, anche se prima non ha compiuto niente di giusto, essendo pervenuto alla giustificazione della fede non in virtù delle opere buone ma per grazia di Dio, che in lui non può più essere vana, perché ormai opera il bene in forza della carità? Se, dopo aver creduto, egli uscisse subito da questa vita, rimane in lui la giustificazione della fede, senza le buone opere precedenti, perché egli l’ha ottenuta per grazia e non per merito, e neppure le successive, perché non gli è concesso di restare in questa vita. È chiaro perciò che quanto dice l’Apostolo: Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere 369, non deve intendersi nel senso che possa chiamarsi giusto chi, avendo ricevuto la fede e restando in vita, vivesse poi malamente. Quindi tanto l’apostolo Paolo si vale dell’esempio di Abramo, perché è stato giustificato per la fede senza le opere della legge, che non aveva ancora ricevuto, quanto Giacomo che mostra che le buone opere sono conseguenza della fede dello stesso Abramo. E così mostra come si debba intendere l’insegnamento di Paolo.
2. Infatti coloro che ritengono questa sentenza dell’apostolo Giacomo contraria a quella dell’apostolo Paolo, possono anche sostenere che Paolo si contraddice, perché altrove dice: Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati 370. E in un altro passo: Ma la fede che opera per mezzo della carità 371. E ancora: Poiché se vivrete secondo la carne voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete 372. Quali siano poi le opere della carne, che si devono mortificare con le opere dello Spirito, lo precisa altrove, dicendo: E del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio 373. E ai Corinzi: Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio 374. Con queste espressioni insegna a chiarissime lettere che essi sono arrivati alla giustificazione della fede non per qualche buona opera antecedente e che questa grazia non è stata data per i loro meriti, quando dice: E tali eravate voi. Ma quando dice: Quelli che fanno tali cose non erediteranno il regno di Dio, mostra a sufficienza che, dopo aver creduto, devono agire bene. Lo stesso apostolo Paolo predica insistentemente e apertamente in molti luoghi ciò che dice anche Giacomo: che tutti coloro che hanno creduto in Cristo devono vivere rettamente per non incorrere nel castigo. Lo ricorda anche lo stesso Signore, dicendo: Non chiunque mi dice: " Signore, Signore ", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli entrerà nel regno dei cieli 375. E altrove: Perché mi chiamate: " Signore, Signore ", e poi non fate ciò che dico? 376. E ancora: Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia, ecc. E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica è simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia 377, ecc. Pertanto le sentenze dei due Apostoli Paolo e Giacomo non si contraddicono, quando uno dice che l’uomo è giustificato per la fede senza le opere e l’altro dice che la fede senza le opere è vana; perché uno parla delle opere che precedono la fede, l’altro delle opere che seguono la fede, come anche lo stesso Paolo spiega in molti passi.
77. - IL TIMORE È PECCATO?
Ogni turbamento è passione; ogni cupidigia è turbamento; ogni cupidigia è dunque passione. Ora, quando una passione è in noi, soffriamo per la stessa passione e soffriamo in quanto è passione. Perciò quando in noi c’è qualche cupidigia, soffriamo per la stessa cupidigia e soffriamo in quanto è cupidigia. Ma nessuna passione, per il fatto che subiamo la stessa passione, è peccato; così anche se proviamo timore, il timore non è peccato. È come se si dicesse: se è bipede, non è una bestia. Se dunque questa affermazione non è conseguente, perché vi sono molti animali bipedi, ugualmente non consegue neppure quella, perché sono molti i peccati che subiamo. Questo si dice infatti per opposizione: non segue pertanto che il timore, se lo subiamo, non sia peccato. Tu invece dici che, se subiamo il timore, di conseguenza non c’è peccato: ammetti tuttavia che vi sono alcuni peccati che subiamo.
78. - LA BELLEZZA DELLE STATUE
L’arte somma di Dio onnipotente, per cui sono state create dal nulla tutte le cose e che viene chiamata anche sua sapienza, opera anche mediante gli artisti, perché producano cose belle e armoniose. Essi però non producono dal nulla ma da una determinata materia, come il legno o il marmo o qualsiasi materiale del genere che è sottoposto alle mani dell’artista. Costoro tuttavia non possono fare alcunché dal nulla, perché operano mediante il corpo. È nondimeno la somma Sapienza, che ha impresso con arte ben più mirabile in tutto l’universo corporeo, che è stato creato dal nulla, le proporzioni e l’armonia, a dotare il loro spirito di quelle proporzioni e armonia di forme che essi, attraverso il corpo, imprimono nella materia. In questo universo vi sono anche i corpi degli animali, che sono tratti dalla materia, vale a dire dagli elementi del mondo, in un modo assai più potente e perfetto delle medesime figure e forme dei corpi che gli artisti umani riproducono nelle loro opere. Infatti nella statua non si ritrova tutta la varietà del corpo umano; ma quella che vi si trova è ricavata, mediante l’animo dell’artefice, da quella sapienza che costruisce con naturalezza lo stesso corpo umano. Non si devono pertanto stimare eccessivamente coloro che producono o venerano tali opere, perché l’anima intenta alle cose inferiori, che fa materialmente con il corpo, aderisce meno alla somma Sapienza, da cui ha queste capacità. Ne fa cattivo uso, quando le esplica all’esterno. Amando infatti le cose, in cui le esercita, perde di vista la loro forma eterna e interiore e così diventa più debole e vana. Coloro poi che addirittura venerano queste opere, quanto si siano allontanati dalla verità, si può capire da questo: se essi venerassero gli stessi corpi degli animali, fatti in modo assai più perfetto e di cui queste sono solo imitazioni, cosa diremmo di più miserabile a loro riguardo?
79. - PERCHÉ I MAGHI DEL FARAONE HANNO OPERATO
ALCUNI PRODIGI COME MOSÈ, SERVO DI DIO? 378
1. Ogni anima esercita in parte un potere personale privato, in parte è soggetta e regolata da leggi universali e pubbliche. Poiché dunque ogni realtà visibile di questo mondo ha una potenza angelica a sé preposta, come testimonia la divina Scrittura in vari testi, sulla realtà a cui è preposta, essa a volte agisce secondo il diritto privato e a volte è tenuta ad agire secondo il diritto pubblico. Poiché il tutto è più importante della parte, ciò che lì fa privatamente, lo compie nella misura che glielo permette la legge universale. Ma ogni anima è tanto più pura per la pietà, quanto meno si compiace del tornaconto personale e, rivolta alla legge universale, la osserva devotamente e volentieri. Ora la legge universale è la Sapienza divina. Ma quanto più gode del proprio bene e, trascurando Dio che governa tutte le anime a loro utilità e salvezza, vuole mettersi al posto di Dio per se stessa e per quanti altri potrà, preferendo il potere personale su di sé e sugli altri invece di quello di Dio su tutti, tanto più è spregevole e tanto più è costretta a subire a sua condanna le leggi divine in quanto pubbliche. Quanto più dunque l’anima umana, abbandonando Dio, si diletta degli onori e del suo potere, tanto più è dominata da tali potestà che godono della loro autonomia e ambiscono di essere onorate dagli uomini come divinità. A queste potestà la legge divina concede spesso di prestare a coloro, che esse hanno meritamente sottomesso a sé, anche qualche prodigio, a titolo privato, da mostrare in quelle cose che esse dominano con un’infima, sebbene perfettamente ordinata, gradazione di potere. Ma, dove la legge divina comanda come legge pubblica, elimina senza dubbio la licenza privata, sebbene anch’essa non abbia alcun valore senza l’autorizzazione della potestà divina universale. Avviene perciò che i santi servi di Dio, quando è per loro un bene avere questo dono, comandino alle potestà inferiori di compiere alcuni prodigi visibili, in forza della legge pubblica e in qualche modo sovrana, ossia per il potere del sommo Dio. Dio stesso infatti comanda in coloro che sono suo tempio e lo amano con grande ardore, disprezzando il proprio potere personale. Invece negli incantesimi dei maghi, compiuti allo scopo di ingannare con i loro adescamenti al fine di dominare coloro a cui concedono tali poteri, le potestà inferiori accondiscendono alle loro preghiere e ai loro riti. In forza del diritto privato esse offrono largamente quanto è loro permesso concedere a coloro che li onorano, li servono e osservano certe condizioni stabilite nei loro misteri. Anche quando sembra che siano i maghi a comandare, essi spaventano le potenze inferiori con i nomi di quelle superiori e mostrano, a coloro che li ammirano, alcuni prodigi sensibili che, per l’infermità della carne, appaiono sensazionali agli uomini incapaci di contemplare le realtà eterne, che il vero Dio invece offre direttamente ai suoi che lo amano. Tutto questo è permesso da Dio che governa con giustizia tutte le cose, distribuendo loro libertà e schiavitù a seconda delle brame e delle scelte. E se talvolta, invocando il sommo Dio, essi ottengono qualcosa che appaga i loro cattivi desideri, non si tratta di una grazia ma di un castigo. Infatti non per nulla dice l’Apostolo: Dio li ha abbandonati ai desideri del loro cuore 379. La facilità a commettere certi peccati è infatti la pena di altri peccati precedenti.
2. Quanto poi alle parole del Signore: Satana non può scacciare Satana 380, perché nessuno, per aver scacciato un demonio invocando il nome di qualche infima potestà, ritenga falsa questa massima del Signore, ma riconosca questo significato: che Satana, anche quando risparmia il corpo o i sensi del corpo, li risparmia per assicurarsi, con l’errore dell’empietà, un maggiore successo sulla volontà dell’uomo stesso. In questo modo Satana non esce, ma penetra più intimamente per operare in lui, come dice l’Apostolo: Secondo il principe delle potenze dell’aria che ora opera nei figli della ribellione 381. Egli infatti non sconvolgeva né tormentava i sensi del corpo né percuoteva i loro corpi, ma regnava nella loro volontà o meglio ancora nella loro cupidigia.
3. Quando il Signore dice che i falsi profeti faranno molti segni e prodigi da indurre in errore, se fosse possibile, anche gli eletti 382, ci invita a comprendere che anche gli uomini scellerati compiono certi prodigi che i santi non possono fare. Non si deve tuttavia per questo concludere che essi sono in posizione più privilegiata davanti a Dio. Neppure i maghi degli Egiziani erano accetti a Dio più del popolo d’Israele, perché quel popolo non poteva fare ciò che essi facevano, sebbene Mosé per grazia di Dio ne facesse di maggiori 383. Ma questi doni non sono concessi a tutti i santi, affinché i deboli non siano ingannati dall’errore assai pericoloso di credere che in tali prodigi vi siano doni più grandi che nelle opere di giustizia, con le quali si guadagna la vita eterna. Ecco perché il Signore proibisce ai discepoli di rallegrarsi per questo, dicendo: Non rallegratevi perché gli spiriti si sottomettono a voi, ma rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli 384.
4. Quando dunque i maghi operano tali prodigi, che talvolta fanno anche i santi, esteriormente sembrano uguali, tuttavia vengono compiuti con uno scopo diverso e una diversa motivazione. Quelli infatti li compiono, cercando la propria gloria, questi cercando la gloria di Dio; quelli inoltre operano per alcune concessioni accordate alle potestà nel loro ordine, come in virtù di contratti privati o benefici, questi invece a pubblica utilità per comando di colui a cui ogni creatura è soggetta. Altro è infatti costringere il padrone a cedere il cavallo a un soldato, altro venderlo a un acquirente oppure donarlo o prestarlo a qualcuno. E come molti cattivi soldati, condannati dalla disciplina militare, atterriscono con le insegne del loro comandante non pochi proprietari ed estorcono loro anche quanto non è concesso dalla legge pubblica, così talvolta i cattivi cristiani, scismatici od eretici, si servono del nome di Cristo o di formule o di sacramenti cristiani per ottenere qualcosa dalle potestà infernali, alle quali è ordinato di arrendersi all’onore di Cristo. Quando invece cedono agli ordini dei malvagi, lo fanno volentieri per sedurre gli uomini, rallegrandosi del loro traviamento. Perciò in modo diverso operano prodigi i maghi, in altro i cattivi cristiani, in altro i buoni cristiani: i maghi per accordi privati, i buoni cristiani per diritto pubblico, i cattivi cristiani per le insegne del diritto pubblico. Non c’è da meravigliarsi che queste insegne siano efficaci, quando sono usate da loro: e anche quando sono usurpate da estranei, che mai hanno dato il loro nome alla milizia cristiana, valgono però per l’onore dell’eccellentissimo Imperatore. Tra questi c’era quel tale di cui i discepoli avevano riferito al Signore che scacciava i demoni nel suo nome, sebbene non fosse con loro al suo seguito 385. Quando invece queste potestà non cedono a queste insegne, è Dio stesso a vietarlo in maniera occulta, perché giudica giusto ed utile così. Infatti in nessun modo qualsiasi spirito osa disprezzare queste insegne, perché tremano dovunque le scorgono. Ma senza che gli uomini se ne rendano conto, altro è ciò che viene comandato da Dio, sia per confondere i cattivi, quando occorre confonderli, come leggiamo negli Atti degli Apostoli, dei figli di Sceva, ai quali uno spirito immondo disse: Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete? 386 sia per ammonire i buoni a progredire nella fede e a usare questo potere non per vana gloria ma utilmente, sia per distribuire i carismi tra i membri della Chiesa, come afferma l’Apostolo: Tutti operatori di miracoli? Tutti possiedono doni di far guarigioni? 387 Per questi motivi dunque, il più delle volte non avvertiti dagli uomini, come abbiamo detto, viene comandato da Dio che, nonostante il ricorso a queste insegne, le potestà di tal genere non obbediscano alla volontà umana.
5. Il fatto poi che i cattivi spesso danneggino i buoni nell’ordine temporale, deriva dal fatto che ricevono un potere su di loro a maggior vantaggio dei buoni, esercitandoli alla pazienza. Perciò l’anima cristiana deve essere sempre vigile nelle sue tribolazioni a seguire la volontà del suo Signore, per non attirarsi, resistendo alle disposizioni divine, un più severo giudizio. Infatti ciò che lo stesso Signore ha detto come uomo a Ponzio Pilato, avrebbe potuto dirlo anche Giobbe al diavolo: Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto 388. Deve quindi esserci carissima non la volontà di colui alla cui malizia si dà potere sui buoni, ma la volontà di colui che concede questo potere. Poiché la tribolazione produce pazienza, la pazienza poi una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato 389.
80. - CONTRO GLI APOLLINARISTI
1. Poiché alcuni eretici, che dal loro fondatore Apollinare si chiamano Apollinaristi, affermano che nostro Signore Gesù Cristo, essendosi degnato di diventare uomo, non aveva anima umana, alcuni assidui loro ascoltatori, aderendo a loro, si sono compiaciuti di quella dottrina perversa, con la quale quell’individuo sminuiva in Dio la natura umana, negando che avesse l’intelligenza, ossia l’anima razionale, in virtù della quale l’uomo si distingue dagli animali. Ma essi, riflettendo così con se stessi che bisognava ammettere che l’unigenito Figlio di Dio, Sapienza e Verbo del Padre, mediante il quale tutto è stato fatto, avesse assunto sotto la forma del corpo umano un animale qualsiasi, rimasero scontenti di sé, non già a correzione per tornare sulla retta via e confessare che l’uomo completo, senza alcuna diminuzione della natura, era stato assunto dalla Sapienza di Dio, ma per affermare, spinti da maggiore ardire, che aveva assunto solo il corpo umano, rifiutandogli la stessa anima e tutto quello che è vitale nell’uomo, invocando addirittura la testimonianza del Vangelo. Anzi, non comprendendo quell’affermazione, osano opporsi perfidamente alla verità cattolica, dicendo che sta scritto: Il Verbo si è fatto carne ed ha abitato in mezzo a noi 390. Essi infatti pretendono che, sotto questi termini, il Verbo si è talmente unito e rappreso alla carne da non lasciare alcuno spazio non solo per l’intelligenza ma neppure per l’anima umana.
2. Innanzitutto bisogna rispondere loro che l’espressione del Vangelo suona così: Il Signore ha assunto la natura umana sino alla carne visibile e in questa completa unità dell’incarnazione il Verbo è la parte principale, mentre la carne è la più bassa e ultima. Volendo perciò l’Evangelista raccomandarci la profonda umiltà di Dio, che si è umiliato, e volendo rimarcare sino a che punto si è umiliato, ha nominato il Verbo e la carne, senza parlare della natura dell’anima, che è inferiore al Verbo ma superiore alla carne. Egli infatti rileva l’umiltà maggiormente con le parole: Il Verbo si è fatto carne, che con le parole: " Il Verbo si è fatto uomo ". Infatti se queste parole si scrutano minuziosamente, qualcuno, non meno perverso, potrebbe da queste espressioni deformare a tal punto la nostra fede da dire che lo stesso Verbo si è trasformato e cambiato in carne, fino a cessare di essere Verbo, perché sta scritto: Il Verbo si è fatto carne, allo stesso modo che la carne umana, quando diventa cenere, non è carne e cenere ma cenere dalla carne. Secondo l’usanza più comune di esprimersi, una cosa che diventa ciò che prima non era, cessa di essere ciò che era. Ma noi non intendiamo così queste parole. Anch’essi ammettono con noi che il Verbo, rimanendo ciò che è, dal fatto di aver preso la condizione di servo, non si è trasformato in quella natura di cui si dice: Il Verbo si è fatto carne. Pertanto, se in ogni passo dove si nomina la carne e si tace dell’anima, si dovesse intendere che lì non c’è l’anima, allora non avrebbero l’anima neppure coloro di cui è detto: Ogni carne vedrà la salvezza di Dio 391; e ugualmente nel Salmo: Ascolta la mia preghiera; a te verrà ogni carne 392; e ancora nel Vangelo: Come tu gli hai dato potere sopra ogni carne, affinché tutto ciò che gli hai dato non perisca ma abbia la vita eterna 393. Dal che si deduce che è consueto designare gli uomini col semplice nome carne, sicché, secondo questo modo di esprimersi, anche la frase: Il Verbo si è fatto carne si può intendere nel senso che il Verbo si è fatto uomo. Come infatti si esprime il tutto per la parte e il più delle volte l’uomo con la sola anima, secondo il detto: Tante anime scesero in Egitto 394; così ugualmente si esprime il tutto con la parte e dal solo nome carne si intende l’uomo, come risulta dagli esempi citati.
3. Perciò come noi a questa obiezione, che essi tirano fuori dal Vangelo, rispondiamo che nessuno è così stolto da ritenere che noi siamo costretti da queste parole a credere e a confessare che il Mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù 395, non avesse l’anima umana, così io domando come essi rispondano alle nostre obiezioni così chiare, con le quali abbiamo dimostrato con innumerevoli passi della Scrittura evangelica ciò che gli Evangelisti hanno detto di lui a proposito di quei sentimenti che non sono possibili senza l’anima. Io non dico infatti da me stesso cose diverse da quelle che lo stesso Signore ricorda molte volte: La mia anima è triste fino alla morte 396; e: Ho il potere di dare la mia anima e di riprenderla di nuovo 397; e: Nessuno ha un amore più grande che dare la sua anima per i propri amici 398. A mio parere solo un ostinato contraddittore può affermare che il Signore ha parlato in senso figurato, come risulta chiaramente dalle molte cose che ha detto in parabole. Sebbene non sia questo il caso, non c’è tuttavia bisogno di polemizzare, quando abbiamo i racconti degli Evangelisti dai quali sappiamo che egli è nato dalla Vergine Maria, è stato preso dai Giudei, flagellato, crocifisso, ucciso e deposto nel sepolcro: tutti avvenimenti che non si possono capire senza il corpo. E nessuno, per quanto stolto, dirà che si devono prendere in senso figurato, essendo stati redatti da coloro che hanno narrato i fatti come li ricordavano. Come dunque questi fatti attestano che egli aveva un corpo, così quei sentimenti mostrano che egli aveva un’anima: è impossibile provare sentimenti senza l’anima. E tuttavia li leggiamo nei racconti degli stessi Evangelisti. Gesù si è meravigliato 399, adirato 400, rattristato 401, rallegrato 402 e così via a non finire. Leggiamo inoltre di sentimenti che richiedono l’azione congiunta dell’anima e del corpo, come aver avuto fame 403, aver dormito 404, essersi seduto stanco del cammino 405 e altri casi del genere. Non possono infatti dire che Dio aveva l’anima, anche se nei libri dell’Antico Testamento si parla di gioia e di ira di Dio e di altri simili sentimenti, e neppure consegue che si debba crederlo. Quelle espressioni sono state infatti dette secondo l’immaginazione profetica non secondo l’obiettività storica. Si parla perfino delle membra di Dio, di mani, piedi, occhi, faccia e così via; e come queste cose non stanno ad indicare che egli abbia un corpo, così quelle non indicano che abbia un’anima. Ma come quello che è stato narrato, parlando delle mani, della testa o di altro di Cristo, indica il suo corpo, così anche quello che, nello stesso genere narrativo, è stato detto dei sentimenti dell’anima, indica la sua anima. È stolto credere all’Evangelista quando narra che ha mangiato e non credergli quando dice che ha avuto fame. Sebbene non consegue che chi mangia abbia fame - leggiamo infatti che anche l’angelo ha mangiato 406, ma non che ha avuto fame - e neppure che chi ha fame mangi, perché può astenersi o per qualche impegno o per mancanza di cibo o per impossibilità di nutrirsi; ma quando l’Evangelista tratta di entrambi i casi 407, bisogna accettarli tutti e due, perché ha descritto l’uno e l’altro a testimonianza di fatti realmente accaduti. Come non si può pensare che egli ha mangiato senza il corpo, così non poteva avvenire che egli provasse la fame senza l’anima.
4. Non ci intimorisce neppure quella vana e stupida calunnia con cui, opponendosi con malizia, dicono: Allora era soggetto alla necessità, se ha veramente provato questi sentimenti nell’anima. È facile la risposta: Era dunque soggetto alla necessità, perché è stato preso, flagellato, crocifisso ed è morto! Comprendano una buona volta, senza ostinazione se vogliono, che egli ha accettato veramente le passioni dell’anima, vale a dire i sentimenti, per libera decisione, come gli è piaciuto. Ugualmente ha accettato le passioni del corpo con la stessa disposizione d’animo, senza alcuna necessità. Come noi non moriamo per libera volontà, così non nasciamo per libera volontà. Egli invece liberamente, com’era opportuno, ha mostrato queste due azioni e le ha compiute in tutta verità. Come dunque nessuno, a titolo di necessità, può allontanare noi e loro dal credere a una realissima passione, mediante la quale si rivela il suo corpo, così nessuno, allo stesso titolo di necessità, può distoglierci dal credere all’autenticità dei sentimenti per mezzo dei quali conosciamo la sua anima. Nessuno deve distoglierli dal consentire alla fede cattolica, a meno che non li trattenga la mortale vergogna di dover cambiare una sentenza lungamente e temerariamente sostenuta, ancorché falsa.
81. - QUARESIMA E QUINQUAGESIMA
1. Tutto l’insegnamento della sapienza, teso all’istruzione degli uomini, consiste nel riconoscere il Creatore e la creatura, venerando la sovranità del primo e confessando la dipendenza della seconda. Ma il creatore è Dio, dal quale, per il quale e nel quale sono tutte le cose 408; è dunque la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. La creatura, invece, parte è invisibile, come l’anima; parte visibile, come il corpo. All’invisibile si riferisce il numero tre. Per questo ci viene comandato di amare Dio in tre modi: con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente 409. Al corpo [si riferisce] il numero quattro a ragione della sua composizione ben evidente, cioè caldo e freddo, umido e secco. Alla creatura, nel suo complesso, si assegna pertanto il numero sette. In definitiva tutta la scienza, che riconosce e distingue Creatore e creatura, è indicata dal numero dieci. Questa scienza, in quanto viene indicata dai movimenti dei corpi nel tempo, si fonda sulla credenza e, con l’autorità degli eventi che vanno e vengono, nutre a mo’ di latte i piccoli per renderli idonei alla contemplazione, che non va e viene, ma resta per sempre. In tale condizione chiunque persevera con fede nelle cose che gli sono state narrate e realizzate nel tempo da Dio per la salvezza degli uomini o che vengono predicate come ancora da avverarsi in futuro, e spera nelle promesse e si preoccupa di compiere con infaticabile carità ciò che l’autorità divina comanda, condurrà rettamente la vita presente soggetta alla necessità e al tempo, simboleggiata col numero quaranta. Infatti il numero dieci, che sintetizza tutta la scienza, moltiplicato per quattro, cioè per il numero attribuito al corpo - dato che il processo si svolge con i moti dei corpi ed è, come si è detto, il campo della fede - fa quaranta. E così si ottiene la sapienza stabile e indipendente dal tempo, che è rappresentata dal numero dieci, in modo da aggiungere dieci a quaranta: poiché anche le parti uguali del numero quaranta, prese insieme, fanno cinquanta. Il numero quaranta ha infatti parti uguali: innanzitutto quaranta volte uno, poi venti volte due, dieci volte quattro, otto volte cinque, cinque volte otto, quattro volte dieci, due volte venti. Ora dunque la somma di uno, due, quattro, cinque, otto, dieci e venti fa cinquanta. Pertanto come il numero quaranta, addizionando le sue parti uguali, dà una decina in più e diventa cinquanta, così il tempo della fede nelle cose avvenute e da adempiere per la nostra salvezza, vissuto rettamente, ottiene l’intelligenza della sapienza invariabile, sicché la scienza si consolida non solo con la fede ma anche con l’intelligenza.
2. Per questo motivo la Chiesa del tempo presente, sebbene siamo già figli di Dio, per quanto non appaia ancora ciò che saremo, opera in mezzo alle fatiche e alle sofferenze e in essa il giusto vive di fede 410: Se non crederete - è detto - non capirete 411. È questo il tempo in cui gemiamo e sopportiamo in attesa della redenzione del nostro corpo 412: è il tempo celebrato dalla Quaresima. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è 413: quando al quaranta si aggiunge il dieci, non solo meriteremo di credere ciò che appartiene alla fede ma anche di comprendere la piena verità. Ecco la Chiesa futura, in cui non vi sarà più alcuna afflizione né mescolanza di uomini cattivi, nessuna malizia ma letizia, pace e gioia. Essa è simboleggiata dalla celebrazione della Quinquagesima. Pertanto, dopo la risurrezione di nostro Signore da morte, trascorsi quaranta giorni coi suoi discepoli - con questo numero è simboleggiata la stessa economia temporale confacente alla fede -, è asceso al cielo 414 e, passati altri dieci giorni, ha mandato lo Spirito Santo 415: ossia a quaranta si è aggiunto dieci al fine di contemplare non le cose umane e temporali ma le divine ed eterne con il soffio e il fuoco dell’amore e della carità. Ecco perché bisogna segnalare tutto l’insieme, cioè il numero di cinquanta giorni, con una celebrazione festosa.
3. Nostro Signore ha indicato questi due tempi, uno di fatica e di preoccupazione, l’altro di gioia e di sicurezza, anche con le reti gettate in mare. Prima della passione si parla infatti della rete gettata in mare: aveva preso tanti pesci che a mala pena si riusciva a trarla a riva e quasi si rompeva 416. Non era stata gettata a destra: la Chiesa attuale infatti raccoglie anche molti cattivi; però non è stata gettata neppure a sinistra: raccoglie infatti anche i buoni; ma qua e là, ad indicare la mescolanza di buoni e cattivi. Dicendo poi che le reti si rompevano, indica che, ferita la carità, sono sorte molte eresie. Ma dopo la risurrezione, volendo indicare la Chiesa dei tempi futuri, dove tutti saranno perfetti e santi, ha comandato di gettare le reti dalla parte destra: furono presi centocinquantatre grossi pesci con grande meraviglia dei discepoli, perché pur essendo tanto grossi, le reti non si erano rotte 417. La grossezza dei pesci indica la grandezza della sapienza e della giustizia; il numero simboleggia invece la scienza comprendente tanto la condizione temporale quanto l’eterna rigenerazione, la quale, come abbiamo detto, è simboleggiata dal numero cinquanta. Allora, poiché non ci sarà bisogno di sostegni materiali, la fede e la sapienza saranno contenute nell’animo; poiché all’animo si attribuisce, come si è detto, il numero tre, moltiplichiamo per tre il cinquanta e abbiamo centocinquanta. A questo numero si aggiunge la Trinità, perché tutta la perfezione è consacrata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e così si ha centocinquantatre, che è il numero dei pesci presi dalla parte destra.
82. - SUL TESTO DELLA SCRITTURA:
IL SIGNORE INFATTI CORREGGE COLUI CHE EGLI AMA
E SFERZA CHIUNQUE RICONOSCE COME FIGLIO 418
1. Molti, mormorando contro le disposizioni di Dio, fanno obiezioni quando vedono i giusti sostenere spesso in questa vita gravi molestie, come se a loro non giovasse nulla servire Dio, perché o subiscono avversità comuni a tutti, e indifferentemente nel corpo e nei danni materiali, nelle ingiurie e in tutte le altre cose che i mortali giudicano mali, o addirittura peggiori a causa della parola di Dio e della sua giustizia, che, sgradite ai peccatori, provocano contro i suoi predicatori reazioni violente, insidie o odi. A costoro bisogna rispondere che se la vita umana fosse solo questa, non parrebbe affatto assurdo che non fosse di alcuna utilità o anzi risultasse dannoso vivere rettamente. Sebbene non siano mancati uomini che hanno scambiato la dolcezza della giustizia e della sua gioia interiore con tutte le fatiche e le molestie materiali, che l’umanità sopporta per la sua condizione mortale, e anche con tutto ciò che con grave offesa viene mosso a causa della stessa giustizia contro coloro che vivono rettamente, tanto da superare, anche senza la speranza della vita eterna, i tormenti per amore della verità, più gioiosamente e lietamente dei lussuriosi che gozzovigliano nell’ebbrezza dei piaceri.
2. A coloro tuttavia, che ritengono Dio ingiusto, perché vedono i giusti nei dolori e nelle sofferenze, o se forse non osano chiamare Dio ingiusto, affermano che o non si cura delle vicende umane oppure che ha stabilito una volta per sempre la fatalità del destino, contro il quale anch’egli non fa niente, perché non si creda che per incostanza venga turbato l’ordine delle cose da lui stabilito, o pensino a qualcos’altro che impedisce a Dio di risparmiare ai giusti questi mali, bisogna dire che non ci sarebbe stata per gli uomini alcuna giustizia, se Dio non si preoccupasse delle vicende umane. Infatti tutta questa giustizia degli uomini, che l’anima umana può conservare facendo il bene e perdere con il peccato, non sarebbe impressa nell’anima se non ci fosse una giustizia immutabile, scoperta interamente dai giusti, quando a lei si convertono, e perduta totalmente dai peccatori, quando si allontanano dalla sua luce. Questa giustizia immutabile è di sicuro quella di Dio: egli non la comunicherebbe per illuminare quanti si convertono a lui, se non si curasse delle vicende umane. Se poi permettesse che i giusti soffrano gravi tormenti per non volere andare contro l’ordine da lui stabilito, neppure lui sarebbe giusto, non perché vuole mantenere il suo ordine ma perché ha stabilito l’ordine delle cose in modo da castigare i giusti con pene immeritate. Chi poi ritiene che Dio non può, almeno in parte, allontanare i mali che affliggono i giusti, è tanto stolto da non comprendere che, come è blasfemo affermare che Dio è ingiusto, è altrettanto blasfemo negare che è onnipotente.
3. Stabiliti rapidamente questi punti della questione in esame, è grandissima empietà dubitare che Dio stesso sia insieme giusto e onnipotente. Il motivo più probabile è che le prove, a cui sono sottoposti i giusti in questa vita, tornino a loro vantaggio. Altra è infatti la giustizia attuale degli uomini per meritare la vita eterna, altra doveva essere quella dell’uomo costituito nel paradiso per conservare e non perdere la stessa salvezza eterna. Come infatti la giustizia divina consiste nel comandare ciò che è utile e nel distribuire pene ai disobbedienti e premi agli obbedienti, così la giustizia dell’uomo consiste nell’obbedire ai precetti salutari. Ma siccome la felicità è nell’animo come la salute nel corpo e come per lo stesso corpo altra è la medicina prescritta per mantenere la salute e altra quella per recuperare la salute perduta, così per la condizione generale dell’uomo altri sono stati i precetti dati allora per non perdere l’immortalità, altri sono quelli che ora sono dati per recuperarla. E come per la salute fisica, se qualcuno, rifiutando le prescrizioni del medico, con le quali si mantiene la buona salute, cade malato, riceve altre prescrizioni per poter guarire. Queste però spesso non bastano se la malattia è tale da richiedere da parte del medico certi interventi il più delle volte aspri e dolorosi, che sono tuttavia necessari per recuperare la salute, sicché accade che l’uomo, sebbene già obbedisca al medico, soffra ancora di dolori non solo a causa della malattia, non ancora guarita, ma anche dei trattamenti della medicina; così l’uomo, caduto per il peccato nella mortalità piena di malanni e di disgrazie di questa vita, perché ha rifiutato di obbedire al primo precetto, col quale avrebbe custodito e conservato la salvezza eterna, da malato ha ricevuto altri precetti, obbedendo ai quali si può dire senza dubbio che vive nella giustizia, anche se è soggetto ancora alle tribolazioni che provengono dalla stessa malattia, non ancora guarita, o dal trattamento medico. A questo trattamento si riferisce il testo: perché il Signore corregge colui che ama e sferza chiunque riconosce come figlio 419. Coloro poi che, disubbidendo a precetti tanto salutari, vivono da iniqui, accrescono grandemente i propri malanni: o da essi traggono innumerevoli sofferenze, fatiche e dolori anche in questa vita, oppure vengono misericordiosamente avvertiti del male in cui si trovano anche dalle pene subite, di modo che ciò che non è sano venga toccato e colpito affinché, ricorrendo alla medicina, siano sanati dalla grazia di Dio. Se poi avranno disprezzato tutto ciò, ossia i richiami delle parole e dei dolori, meriteranno, al termine di questa vita, la giusta dannazione eterna. In conclusione può dire che queste cose sono ingiuste chi ritiene che esista solo questa vita mortale, che ora conduciamo, e non crede alle realtà future divinamente predicate: costui subirà i gravissimi castighi dell’ostinazione dei peccati e della sua infedeltà.
83. - LE PAROLE DEL SIGNORE SUL MATRIMONIO:
CHIUNQUE RIPUDIA SUA MOGLIE,
ECCETTO IL CASO DI CONCUBINATO, ECC. 420
Se il Signore per ripudiare la moglie ammette come unica causa la fornicazione e non proibisce di sciogliere il matrimonio pagano, ne segue che il paganesimo è considerato una fornicazione. È chiaro che il Signore nel Vangelo, quando parla di ripudiare la moglie, ammette come unica causa la fornicazione. Qui in verità non si proibisce di sciogliere il matrimonio pagano, perché quando l’Apostolo dà un consiglio su questa materia, affinché il fedele non ripudi il coniuge infedele che vuole restare con lui, dice: Lo dico io, non il Signore, perché si comprenda che il Signore non comanda affatto di ripudiarlo, né sembri che l’Apostolo dia un consiglio contrario al comando del Signore, ma tuttavia lo permette, di modo che nessuno in tale situazione sia costretto dal rigore del comando ma agisca liberamente secondo la volontà del consiglio. Se però qualcuno sostiene che il Signore ammette come unica causa per rimandare il coniuge la fornicazione, come è intesa dal volgo, consistente cioè nel rapporto illecito, può dire così: Il Signore, trattando di questa materia, parlava di due coniugi fedeli, uomo e donna, sicché, se entrambi sono fedeli, a nessuno è lecito ripudiare l’altro, eccettuato il caso di fornicazione. Qui non si può intendere il paganesimo, perché sono entrambi credenti. Anche l’Apostolo sembra fare la stessa distinzione, quando afferma: Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: La moglie non si separi dal marito e, qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito 421. Dal che si capisce che anche se la moglie ha abbandonato il marito, per quella sola causa che permette la separazione, deve rimanere senza sposarsi o, se non sa vivere in continenza, si riconcili col marito, o rinsavito o certo da sopportare, piuttosto che sposare un altro. Poi prosegue a dire: e il marito non ripudi la moglie 422, ingiungendo brevemente all’uomo quanto aveva ordinato alla donna. E dopo queste indicazioni, riprese dal comando del Signore, così continua: Agli altri dico io, non il Signore: Se un fratello ha la moglie non credente, e questa consente a rimanere con lui, non la ripudi; e una donna che abbia il marito non credente, se questo consente a rimanere con lei, non lo ripudi 423. Dal che fa comprendere che il Signore ha parlato di costoro: nessuno dei due deve ripudiare l’altro, se entrambi sono credenti.
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