1. 1. Secondo una divisione fatta al principio avevo diviso in due parti il presente libro, che si intitola La Dottrina Cristiana. Difatti, al termine del proemio, dove rispondevo a coloro che avrebbero criticato l'opera, dicevo: Due sono le cose su cui si basa ogni trattato sulle Scritture: il modo di trovare le cose che occorre comprendere e il modo di esporre le cose comprese; parleremo quindi prima del modo di trovare e poi del modo di esporre 1. Orbene, siccome abbiamo parlato diffusamente sul modo di trovare e su questa prima sezione abbiamo riempito tre volumi, ora, con l'aiuto del Signore, saremo brevi nel presentare il modo di esporre. Vorremmo, se possibile, esaurire tutto in un unico libro, di modo che l'opera completa non vada oltre i quattro volumi.
1. 2. All'inizio [del presente libro] mi piace collocare un preambolo per respingere le attese di quei lettori che per caso credessero che io mi metta a impartire i precetti di retorica che appresi e insegnai nelle scuole civili. Li ammonisco a non aspettarsi da me cose del genere. Non perché non siano utili ma perché, se hanno dell'utilità, le imparino con uno studio a parte - se c'è qualche persona dabbene che abbia agio di imparare anche queste cose -, comunque non le stiano a chiedere a me, né in quest'opera né in qualsiasi altra.
2. 3. È un fatto che con la retorica si può persuadere tanto il vero quanto il falso. E allora chi oserebbe dire che la verità debba trovarsi inerme in chi la difende contro la menzogna? Voglio dire: perché mai coloro che cercano di persuadere delle falsità dovrebbero, con [forbiti] preamboli, rendersi l'uditore o benevolo o attento o docile e quegli altri non dovrebbero saperlo fare? Perché gli uni dovrebbero riuscire a narrare le falsità in forma succinta, chiara e verosimile, mentre coloro che narrano la verità dovrebbero farlo in modo che l'uditore si annoi, l'argomento proposto resti incomprensibile e, finalmente, sia disgustoso il credere? Perché quelli dovrebbero impugnare la verità con argomenti sballati e difendere la falsità, mentre questi non dovrebbero riuscire né a difendere la verità né a confutare la falsità? Perché quelli con il loro dire dovrebbero riuscire a spaventare, rattristare, rallegrare, infiammare l'animo degli uditori muovendoli e sospingendoli verso l'errore, mentre questi altri, tardi e freddi nei confronti della verità, dovrebbero essere come addormentati? Chi potrebbe essere così balordo da pensare così? In effetti l'argomento che dobbiamo affrontare è quello dell'eloquenza, che ha moltissimo influsso per persuadere tanto le cose buone quanto quelle cattive. Perché dunque non se la procurano con zelo i buoni per combattere in favore della verità, se se ne servono i cattivi per patrocinare cause disoneste e vane a servizio dell'iniquità e dell'errore?
3. 4. In questa materia ci sono indicazioni e precetti, ai quali se si aggiunge insieme con l'abbondanza e la ricercatezza delle parole una padronanza particolare della lingua stilisticamente perfetta si ottiene quella che si chiama facondia o eloquenza. Coloro che vogliono impararla rapidamente lo debbono fare in età adatta e conveniente, dedicando a ciò un periodo adeguato di tempo ma senza pretenderlo da questo nostro scritto. Al riguardo i sommi maestri dell'eloquenza romana non rifuggirono dal dire che quest'arte, se non la si impara presto, non la si potrà mai imparare a perfezione 2. La qual cosa, se sia vera, che bisogno c'è di domandarselo? In realtà, per quanto la potrebbero imparare, sia pure con una certa difficoltà, anche gli ingegni un po' tardi, noi non la riteniamo di tale importanza da volere che vi si dedichino anche uomini d'età matura e avanzati negli anni. È sufficiente che vi si dedichino i giovani e, fra questi, nemmeno tutti coloro che desideriamo vengano istruiti per l'utilità della Chiesa, ma coloro che non si occupano di cose più urgenti o non sono gravati da necessità da preferirsi a questa in modo evidente. In effetti, se si ha un ingegno acuto e brillante, è più facile impadronirsi dell'eloquenza leggendo o ascoltando persone eloquenti che non mettendosi alla ricerca di norme d'eloquenza. Non mancano opere di letteratura ecclesiastica - anche al di fuori del canone che salutarmente viene collocato all'apice dell'autorità - leggendo le quali un uomo fornito d'ingegno, sebbene non le sappia comporre ma badi soltanto alle cose che vi si dicono, mentre maneggia tali opere, non può non rimanere istruito anche nei riguardi dello stile con cui esse vengono dette. Ciò otterrà più agevolmente se soprattutto vi aggiungerà l'abitudine o di scrivere o di dettare o, finalmente, anche di esporre le cose che sa essere secondo la norma della religione e della fede. Che se manca un tale acume della mente, né si capiranno le norme della retorica né, se le si riesce ad imparare un pochino qualora vengano inculcate con grande sforzo, recano alcun giovamento. È vero infatti anche di coloro che le hanno imparate e riescono a parlare con facondia ed eloquenza, che non tutti, quando parlano, possono pensare alle norme secondo cui parlano, a meno che non trattino proprio di quelle. Tutt'altro! Io ritengo che ce ne sia sì e no qualcuno fra loro, il quale riesca a mettere insieme le due cose, cioè dir bene e pensare, mentre parla, a quelle norme del dire per cui riesce a parlare bene. Bisogna evitare infatti che, mentre si bada a parlare con arte, ci si dimentichi di ciò che si ha da dire. Purtuttavia nei discorsi e nei racconti delle persone eloquenti si trovano applicate le norme di eloquenza, alle quali essi, per parlare o mentre parlavano, non badavano, sia che l'avessero imparate sia che non l'avessero neppure sentite dire. Le mettevano in pratica perché erano eloquenti, non le usavano per diventare eloquenti.
3. 5. Effettivamente, se è vero che i bambini diventano capaci di parlare imparando le frasi da chi parla, perché non si dovrebbe diventare eloquenti senza che ci venga insegnata in alcun modo la retorica ma leggendo o ascoltando le espressioni delle persone eloquenti e, per quanto si può, imitandole? E che dire se con esempi esperimentiamo che ciò è possibile? Conosciamo infatti moltissime persone che senza studiare le norme della retorica sono diventate più eloquenti di moltissimi altri che le avevano apprese. Non conosciamo però nessuno che sia divenuto eloquente senza avere letto o ascoltato dispute o discorsi di persone eloquenti. È così anche della stessa grammatica con la quale s'impara la precisione del dire. Nemmeno di essa avrebbero bisogno i fanciulli se fosse loro concesso di vivere e crescere in mezzo a uomini che parlassero correttamente. Non conoscendo infatti alcuna espressione sgrammaticata, se ascoltassero sulla bocca di qualcuno espressioni errate, in forza della loro abitudine corretta le disapproverebbero e se ne terrebbero lontani. È quel che fanno gli abitanti di città, anche quelli che non conoscono le lettere, quando rimproverano i contadini.
4. 6. Colui che espone ed insegna le divine Scritture, in quanto difensore della retta fede e avversario dell'errore, deve insegnare il bene e distogliere dal male. In questa sua opera oratoria deve conciliare gli animi in contrasto, sollevare gli sfiduciati, proporre agli indotti quel che debbano fare e quel che li attende. Che se invece trova o riesce lui stesso a crearsi degli animi benevoli, attenti e docili, deve fare tutte quelle altre cose che le circostanze richiedono. Se gli uditori debbono essere istruiti, lo si deve fare mediante la narrazione - se pur ce n'è bisogno - perché la cosa di cui si tratta diventi palese. Per rendere certe le cose dubbie, occorre far uso del raziocinio adducendo delle prove. Se poi l'uditore, più che essere istruito, ha bisogno di essere stimolato affinché non rimanga inerte nel praticare quanto già conosce ma presti assenso alle cose che riconosce essere vere, bisogna ricorrere a una maggiore carica oratoria. Occorre usare suppliche e minacce, stimolazioni e riprensioni e tutte le altre svariate arti di muovere gli animi.
4. 7. Ma tutte queste cose che ho elencate non trascura di farle nessuno (o quasi) che voglia con l'eloquenza ottenere un qualche risultato.
5. 7. Ci sono però alcuni che ciò fanno senza mordente, in maniera sgraziata e con freddezza, mentre altri con mordente, in maniera elegante e con vigore. Ebbene, all'opera di cui ci stiamo occupando deve accedere colui che è in grado di trattare o dire la cosa con sapienza, anche se non può farlo con eloquenza, di modo che rechi giovamento agli uditori, sebbene si tratti di un giovamento minore di quello che avrebbe conseguito se avesse saputo parlare anche con eloquenza. Chi poi abbonda di eloquenza fasulla, lo si deve evitare con tanto maggiore cura quanto più l'uditore prova gusto nell'ascoltare da lui ciò che è inutile e, siccome sente che dice le cose con facondia, ritiene che parli anche conforme a verità. Questa norma non ignorarono nemmeno coloro che si accinsero ad insegnare la retorica, i quali riconobbero che, se la sapienza senza l'eloquenza giova poco alle comunità cittadine, l'eloquenza senza la sapienza il più delle volte nuoce moltissimo, certo non giova mai 3. Se a dire cose come queste furono costretti, mossi dalla forza della verità, coloro che impartirono leggi di eloquenza e composero libri in cui ne fecero l'esposizione pur senza conoscere la vera sapienza che è quella celeste, che procede dal Padre della luce, quanto più non dovremo avere gli stessi sentimenti noi che siamo figli e ministri di questa sapienza? In effetti l'uomo parla più sapientemente o meno sapientemente a seconda del progresso più o meno grande che ha fatto nella conoscenza delle sante Scritture. Non dico del fatto di averle molto lette o imparate a memoria ma dell'averle ben comprese e averne scrutato diligentemente il senso. Ci sono infatti coloro che le leggono ma poi le trascurano: le leggono per conoscerle, le trascurano non volendole comprendere. A costoro sono senza dubbio da preferirsi coloro che ritengono meno le parole lette e penetrano con gli occhi del loro cuore nel cuore delle Scritture. A tutti e due poi è preferibile colui che quando vuole ne sa anche parlare e le intende come si deve.
5. 8. Ritenere le parole della Scrittura è dunque cosa sommamente necessaria a colui che deve parlarne con sapienza, anche se non può farlo con eloquenza. Quanto più infatti si sente sprovvisto di parole proprie, tanto più deve essere ricco di sentenze bibliche, per cui ciò che dice a parole proprie lo comprovi con quelle, e chi è limitato nel possesso di parole proprie cresca - per così dire - con la testimonianza di chi è grande. Colui infatti che usando parole proprie piacerebbe poco piacerà per le argomentazioni [scritturali] che arreca. Inoltre, chi vuol parlare non solo con sapienza ma anche con eloquenza, essendo certamente più utile se saprà fare le due cose insieme, lo invierei a leggere, ascoltare e imitare nella pratica gli uomini eloquenti, più volentieri che non a seguire i maestri dell'arte retorica. Occorre però che quegli oratori che si leggono o ascoltano abbiano il riconoscimento, da chi li elogia con verità, di avere parlato o di parlare non solo eloquentemente ma anche conforme a verità, poiché quelli che parlano con eloquenza li si ascolta con gusto, quelli che parlano con sapienza li si ascolta in modo salutare. Per questo non dice la Scrittura: La moltitudine degli abili parlatori ma: La moltitudine dei sapienti è salvezza della terra 4. Ebbene, come spesso sono da trangugiarsi, perché fanno bene, cose amare, così occorre sempre evitare la dolcezza che risulti nociva. Ma cosa c'è di meglio di una dolcezza salutare o di una salute soave? Sicché quanto più in quelle pagine si desidera la dolcezza, tanto più facilmente giova il rimedio salutare. Così ci sono degli uomini di Chiesa che hanno trattato le Sacre Scritture non solo con sapienza ma anche con eloquenza. A leggerli [tutti] manca sì il tempo, ma ciò non vuol dire che essi non siano in grado di giovare a chi li studia e dedica loro del tempo.
6. 9. A questo punto qualcuno chiederà forse se i nostri autori - coloro dico i cui scritti ispirati divinamente hanno formato il nostro canone con la sua autorità oltremodo salutare - debbono essere chiamati soltanto sapienti o anche eloquenti. È questo un problema che da me e da coloro che sull'argomento la pensano come me, si risolve molto facilmente. In realtà, là dove li capisco, nulla potrà sembrarmi più sapiente, nulla più eloquente. E oso dire che tutti coloro che comprendono a dovere ciò che tali autori dicono, nello stesso tempo comprendono che essi non avrebbero dovuto parlare diversamente. Come infatti c'è una eloquenza che si adatta di più all'età giovanile e un'altra che si adatta meglio all'età senile, e non si può chiamare eloquenza quella che non si adatta alla personalità di colui che parla, così c'è una eloquenza che conviene a quegli uomini degni della massima autorità e completamente divinizzati. In base a tale eloquenza essi hanno parlato, né ce ne sarebbe un'altra a loro confacente né quella si adatterebbe ad altri. Si confà, effettivamente, a loro [e a loro soli]; quanto invece agli altri, più il loro dire sembra ad essi spregevole più li supera in altezza, non per la ventosità ma per la solidità. In quei passi poi dove non li comprendo mi apparirà certo in misura minore la loro eloquenza, tuttavia non dubiterò che essa sia tale quale la riscontro nei passi che comprendo. A tale eloquenza infatti si doveva mescolare anche una certa dose di oscurità, in detti divini e salutari come quelli, per cui il nostro intelletto avrebbe dovuto trarre profitto non solo mediante la [semplice] scoperta ma anche mediante la ricerca.
6. 10. Se avessi tempo, potrei mostrare come nei Libri sacri composti dai nostri autori ci sono tutte le risorse e gli ornamenti dell'eloquenza di cui si vantano coloro che antepongono il proprio linguaggio al linguaggio dei suddetti nostri autori, basandosi non sulla elevatezza ma sulla vacuità. Sono infatti, i nostri, libri che la divina Provvidenza ci ha forniti per istruirci e trasferirci da questo mondo perverso al regno della beatitudine. Ora, se nell'eloquenza dei Libri sacri provo un godimento inesprimibile, non è per le cose che quegli uomini hanno in comune con gli oratori o i poeti del paganesimo; mi riempie piuttosto di ammirazione e di stupore il fatto che essi si sono serviti della nostra eloquenza assoggettandola, per così dire, ad un'altra eloquenza loro propria in modo che loro non facesse difetto né eccedesse i limiti. Una tale eloquenza infatti essi non dovevano né ripudiarla né con essa pavoneggiarsi; e l'una cosa avrebbero fatto se l'avessero [del tutto] evitata, mentre l'altra si sarebbe potuta supporre se fosse stato facile scoprirla. Non mancano certo persone dotte capaci di penetrare i passi oscuri: esse vi trovano dette cose tali che le parole con cui le si dicono non sembrano scelte dall'autore che parla ma somministrate quasi spontaneamente dalle cose stesse. Potresti quasi immaginare che la sapienza sgorghi dalla sua casa, cioè dal cuore del sapiente; e a lei tien dietro, anche se non chiamata, l'eloquenza, a modo di un'ancella inseparabile [dalla sua padrona].
7. 11. Chi infatti non vede cosa voleva dire e con quanta sapienza si sia espresso l'Apostolo quando dice: Noi ci gloriamo nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza la virtù provata, la virtù provata la speranza, la speranza poi non rimane confusa, poiché l'amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato 5? Se in questo caso un tizio, ignorantemente dotto, si mettesse a sostenere che l'Apostolo ha seguito le norme dell'eloquenza come arte [profana], non si esporrebbe alle irrisioni di tutti i cristiani, dotti e non dotti? Eppure qui si riscontra quella figura che in greco si chiama mentre in latino da diversi la si dice " gradazione ", poiché non la si è voluta chiamare semplicemente " scala " in quanto le parole e il loro significato si trovano connessi e derivanti l'uno dall'altro. Nel nostro caso troviamo in connessione la pazienza con la tribolazione, la virtù provata con la pazienza, la speranza con la virtù provata. Vi si riconosce anche un altro pregio. Terminate alcune parti della frase con l'interruzione della pronuncia, cose che i nostri chiamano membri e cesure mentre i greci e , segue uno sviluppo o giro [di parole] che i greci chiamano , i cui membri restano sospesi mediante la pronuncia di chi parla, finché in ultimo non si arrivi alla chiusa. In concreto, fra ciò che precede il " periodo " il primo membro è: infatti la tribolazione produce la pazienza; il secondo: la pazienza poi la virtù provata; il terzo: la virtù provata la speranza. Poi si presenta in se stesso il " periodo ", che si svolge in tre membri, di cui il primo è: La speranza non rimane confusa; il secondo: perché l'amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori; il terzo: per opera dello Spirito Santo che ci è stato dato. Queste cose e altre simili vengono insegnate nell'arte oratoria. Quanto però all'Apostolo, come non diciamo che egli si sottopose alle norme dell'eloquenza così non neghiamo che l'eloquenza fu al seguito della sua sapienza.
7. 12. Scrivendo ai Corinzi, nella seconda lettera rimprovera certi pseudoapostoli, provenienti dal giudaismo, che lo calunniavano. Costretto a lodare se stesso, attribuisce a sé questa che egli chiama insipienza; ma con quanta sapienza, con quanta eloquenza parla! Familiare della sapienza e guida esperta dell'eloquenza, al seguito di quella e precedendo questa, senza respingerne la sequela, egli dice: Ve lo dico di nuovo, perché nessuno mi ritenga un insipiente, altrimenti prendetemi pure per un insipiente, ma permettete che mi glori un poco. Quello che dico, non lo dico secondo Dio ma come in uno stato di follia, in relazione al gloriarmi. Dal momento che molti si gloriano secondo la carne, mi glorierò anch'io. Voi infatti volentieri sopportate gli insipienti, voi che invece siete sapienti: sopportate se qualcuno vi riduce in schiavitù, se vi divora o vi deruba, se si esalta o vi schiaffeggia. Lo dico a titolo di mancata nobiltà quasi che noi fossimo stati deboli. Ma là dove ciascuno osa gloriarsi (lo dico da stolto), lo oso anch'io. Sono Ebrei? Anch'io. Sono Israeliti? Anch'io. Sono stirpe di Abramo? Anch'io. Sono ministri di Cristo? Lo dico da insipiente, io di più. Moltissimo nelle fatiche, più copiosamente nelle carceri, nelle ferite oltre ogni dire, nella morte molto frequentemente. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio e sono stato un giorno e una notte in fondo al mare. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a queste cose che sono esterne, il mio assillo quotidiano [è] la sollecitudine per tutte le Chiese. Chi è debole senza che io divenga debole [con lui]? Chi viene scandalizzato senza che io ne arda? Se occorre gloriarsi, mi glorierò di quel che concerne la mia debolezza 6. Con quanta sapienza siano dette queste cose lo vede chiunque abbia la mente desta. In qual fiume di eloquenza siano poi incanalate, se ne accorge anche chi è in preda al sonno.
7. 13. Se poi si tratta di un esperto, vi riconosce e le cesure, che i greci chiamano e i membri e i periodi di cui ho parlato poc'anzi. Interposti con opportunissima varietà, ne hanno fatto un discorso di grande bellezza e gli hanno dato come un volto, di cui godono e si emozionano anche i meno preparati. In effetti, esaminando il brano da dove abbiamo iniziato a citarlo, vi troviamo dei periodi, dei quali il primo è il più ridotto, cioè di due membri. Non si danno infatti periodi formati da meno di due membri, mentre se ne possono dare di più membri. Quel primo periodo è dunque questo: Lo dico di nuovo, perché nessuno mi ritenga un insipiente. Ne segue uno di tre membri: Altrimenti, prendetemi pure per un insipiente, ma permettete che mi glori un poco. Quello che viene per terzo ha quattro membri: Quello che dico, non lo dico secondo Dio, ma come in uno stato di follia, in relazione a questa materia del gloriarmi. Il quarto ne ha due: Dal momento che molti si gloriano secondo la carne, mi glorierò anch'io. Anche il quinto ne ha due: Volentieri sopportate gli insipienti voi che invece siete sapienti. Anche il sesto è di due membri: Sopportate infatti se qualcuno vi riduce in schiavitù. Seguono tre cesure: Se vi divora, se vi deruba, se si esalta. Vengono poi tre membri: Se qualcuno vi schiaffeggia, lo dico a titolo di mancata nobiltà, quasi che noi fossimo stati deboli. Si aggiunge un periodo composto di tre membri: Là dove ciascuno osa gloriarsi - lo dico da stolto - lo oso anch'io. Dopo questo, poste delle cesure a modo di interrogazione, si replica a ciascuna con altrettante cesure di risposta, tre cioè contro tre. Sono Ebrei? Anch'io. Sono Israeliti? Anch'io. Sono progenie di Abramo? Anch'io. Si prosegue con una quarta cesura posta a modo di interrogazione come prima, ma si risponde opponendo non un'altra cesura ma un membro. Sono ministri di Cristo? Lo dico da insipiente: Io di più. Quanto alle quattro cesure che seguono, messa da parte con elegantissima scelta ogni interrogazione, le si articolano così: Moltissimo nelle fatiche, più copiosamente nelle carceri, nelle ferite oltre ogni dire, nella morte molto frequentemente. In seguito si frappone un breve periodo che deve essere distinto con la sospensione della pronuncia: Dai Giudei cinque volte (di modo che questo sia un membro cui si collega l'altro) ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno. Poi si ritorna alle cesure e se ne pongono tre: Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio. Segue un membro: Sono stato un giorno e una notte in fondo al mare. Successivamente fluiscono con ordinatissima foga oratoria quattordici cesure: Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Dopo queste interpone un periodo di tre membri: Oltre a queste cose che sono esteriori, il mio assillo quotidiano [è] la sollecitudine per tutte le Chiese. E a questo soggiunge due membri in tono interrogativo: Chi è debole, senza che io diventi debole [con lui]? Chi viene scandalizzato senza che io ne arda? Alla fine tutto questo brano, fatto - diciamo - come di aneliti, termina con un periodo a due membri: Se occorre gloriarsi, mi glorierò di quel che concerne la mia debolezza. Quanto poi abbia di bellezza e di giocondità il fatto che, dopo questa descrizione impetuosa, si riposi in certo qual modo interponendo una breve narrazione, e così faccia anche respirare colui che ascolta, non lo si può spiegare sufficientemente. Continua infatti dicendo: Il Dio e il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco 7. Poi narra brevissimamente i pericoli a cui fu soggetto e come ne sia stato liberato.
7. 14. A voler continuare con il rimanente si andrebbe per le lunghe e così pure se si volessero dimostrare gli stessi pregi letterari ricorrendo ad altri passi delle Sacre Scritture. E che dire se volessi mostrare, per lo meno nel testo dell'Apostolo che ho ricordato, le figure di linguaggio che si insegnano nella retorica? Non sarebbe più facile che gli uomini seri mi prendano per troppo prolisso piuttosto che qualcuno dei dotti mi ritenga bastevole alle sue esigenze? Tutte queste norme, quando vengono insegnate dai maestri, le si considerano cose grosse, le si comprano a gran prezzo e le si vendono con grande sfoggio. Un tale sfoggio ho l'impressione di voler fare anch'io mentre parlo di queste cose. Ma occorreva rispondere agli uomini male istruiti che si credono autorizzati a disprezzare i nostri autori non perché non abbiano ma perché non ostentano quella eloquenza che loro amano eccessivamente.
7. 15. Probabilmente qualcuno penserà che io, per mostrare un uomo eloquente fra i nostri, ho scelto di proposito l'apostolo Paolo. Difatti, là dove egli dice: Sebbene inesperto nel parlare, non lo sono nella scienza 8, sembra che parli per fare una concessione ai suoi detrattori, non che egli riconosca la cosa per vera. Se invece avesse detto: Inesperto, è vero, nel parlare, non però nella scienza, non lo si sarebbe in alcun modo potuto intendere diversamente. In realtà non esitò a mettere in rilievo la propria scienza, senza la quale non sarebbe potuto essere il Dottore delle Genti. Certo, se come esempio di eloquenza prendiamo qualche sua pagina, la prendiamo da quelle lettere che anche i suoi critici - che ritenevano spregevole il suo parlare - confessavano però che gli scritti erano notevoli per gravità e robustezza 9. Mi accorgo quindi, a questo punto, di dover dire qualcosa anche dell'eloquenza dei Profeti, presso i quali per il loro linguaggio figurato molte cose si trovano celate: cose che, quanto più sembrano nascoste da parole traslate, tanto più diventano dolci quando le si penetra. In questo libro però debbo ricordare solo quei passi che non mi costringano a spiegare quanto vi è detto ma solo a sottolineare il modo come le cose sono state dette. Lo farò ricorrendo prevalentemente al libro di quel Profeta che parlando di se stesso dice di essere stato pastore e mandriano e da tale professione essere stato divinamente prelevato e inviato a fare da profeta al popolo di Dio 10. Non esaminerò il testo secondo i Settanta, i quali, essendo stati essi stessi aiutati nel tradurre dal divino Spirito, sembra che abbiano detto qualcosa per elevare l'attenzione del lettore a scrutare un senso più spirituale, per cui sono da attribuire a loro alcuni passi troppo oscuri per essere espressi con figure troppo azzardate. Esaminerò il testo come è stato tradotto in latino dall'ebraico ad opera del sacerdote Girolamo, che ha fatto la sua traduzione da esperto nelle due lingue.
7. 16. Rimproverando dunque certe persone empie, superbe, lussuriose e per conseguenza incuranti dell'amore fraterno, questo profeta campagnolo o nato da campagnoli, gridava dicendo: Guai a voi, ricchi di Sion, che confidate nel monte di Samaria, ottimati e capi dei popoli che incedete con pompa nella casa di Israele! Passate da Calane e guardate, e da lì andate ad Hamat, la grande, e scendete a Gat dei Palestinesi e a tutti i più bei loro regni; [e vedete] se il loro territorio è più grande del vostro. Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità. Voi dormite in letti d'avorio, e vivete da lascivi sui vostri divani; voi mangiate l'agnello preso dal gregge e i vitelli presi dall'armento; e cantate al suono del salterio. Come Davide, credettero di avere strumenti per il canto, mentre bevevano il vino in coppe e si ungevano di ottimo unguento, e per nulla soffrivano dello sfacelo di Giuseppe 11. Forse che quei tali che, ritenendosi dotti ed eloquenti, disprezzano i nostri Profeti come privi d'erudizione e d'eloquenza, se avessero dovuto dire qualcosa di simile al popolo o a persone di tal fatta, l'avrebbero voluto dire diversamente, a meno che non si tratti di quelli fra loro che preferiscono agire da pazzi!
7. 17. Le orecchie di persone assennate cosa avrebbero desiderato di meglio d'un simile discorso? Dapprima c'è l'invettiva: e di quale fremito non è essa permeata, quasi dovesse destare dei sensi addormentati? Guai a voi, ricchi di Sion, che confidate nel monte di Samaria, ottimati e capi dei popoli che incedete con pompa nella casa di Israele! 12 Successivamente dimostra che sono ingrati ai benefici di Dio, che aveva dato loro un vasto regno, in quanto confidavano nel monte di Samaria, dove effettivamente venivano adorati gli idoli. Per questo dice: Passate da Calne e guardate, e da lì andate ad Hamat la grande, e scendete a Gat dei Palestinesi e a tutti i più bei loro regni; [e vedete] se il loro territorio è più vasto del vostro 13. Mentre vengon dette queste cose, il discorso si adorna, come di fari, di nomi di località, e cioè: Sion, Samaria, Calne, Hamat la grande, Gat dei Palestinesi. In seguito si variano in modo veramente incantevole le parole aggiunte a queste località: Siete ricchi, confidate; passate, andate, scendete 14.
7. 18. Dopo questo si preannunzia la prigionia che sarebbe sopraggiunta al tempo di un re iniquo, e si aggiunge: Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità. Vengono quindi aggiunte le azioni riguardanti la lussuria: Voi dormite su letti di avorio e vivete da lascivi sui vostri divani; voi mangiate gli agnelli presi dal gregge e i vitelli presi dall'armento 15. Questi sei membri costituiscono tre periodi, ciascuno di due membri. Non dice infatti: " Voi siete stati separati per il giorno della sventura, vi avvicinate al regno dell'iniquità, dormite in letti d'avorio, vivete da lascivi sui vostri divani, mangiate gli agnelli presi dal gregge e i vitelli presi dall'armento ". Se si fosse espresso così, anche questa forma sarebbe stata bella: tutti e sei i membri sarebbero dipesi da un unico pronome e ciascuno sarebbe stato delimitato nel suo ambito dalla voce del lettore. Il Profeta ha fatto qualcosa di più bello: al medesimo pronome si agganciano a due a due le frasi che spiegano le tre affermazioni. Una riguarda la predizione della prigionia: Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità; un'altra si riferisce alla lussuria: Voi dormite su letti di avorio e vivete da lascivi sui vostri divani; la terza poi si riferisce alla voracità: Voi mangiate gli agnelli del gregge e i vitelli dell'armento 16. In tal modo si lascia alla libertà del lettore il terminare i membri isolatamente e farne sei ovvero sospendere la voce al primo, al terzo e al quinto, aggiungendo il secondo al primo, il quarto al terzo e il sesto al quinto, facendo in tal modo - e in maniera molto elegante - tre periodi, ciascuno di due membri. Nel primo mostrerebbe la sciagura imminente, nel secondo il letto maculato da lussuria, nel terzo la mensa stracarica di cibi.
7. 19. Successivamente attacca la voluttà godereccia dell'udito. Dice: Voi cantate al suono del salterio 17. Ma siccome la musica può essere eseguita anche sapientemente e dal sapiente, con stupenda bellezza di eloquio, egli frena l'impeto dell'invettiva e non si rivolge più a loro ma parla di loro per insegnare a noi a distinguere la musica del sapiente dalla musica del gaudente. Non dice pertanto: " Voi che cantate al suono del salterio e come Davide e credete di avere strumenti per il canto ", ma, dopo di avere detto loro ciò che, in quanto sensuali, dovevano udire: Voi che cantate al suono del salterio, indica in qualche modo anche agli altri la loro imperizia e prosegue: Come Davide e credettero di avere strumenti per il canto, mentre bevevano il vino in coppe e si ungevano di pregiatissimo unguento 18. Queste tre frasi si pronunciano meglio se, con una sospensione tra i primi due membri del periodo si fanno finire col terzo.
7. 20. A tutte queste espressioni si aggiunge: E per nulla soffrivano dello sfacelo di Giuseppe 19. Che la si pronunci di seguito, di modo che costituisca un solo membro o che, meglio, la si interrompa così: E per nulla soffrivano e dopo la separazione si incalzi: dello sfacelo di Giuseppe, in modo da ottenere un periodo di due membri, il fatto sta che con splendida bellezza non ha detto: " Non soffrivano per nulla per lo sfacelo del fratello " ma, invece di fratello, ha posto Giuseppe. In tal modo ognuno dei fratelli poteva essere indicato dal nome proprio di colui la cui celebrità fu superiore a quella degli altri fratelli, tanto per i mali che subì come per i benefici con cui li ricompensò. Orbene, questo tropo, che fa intendere in Giuseppe qualsiasi altro dei fratelli, non so se lo si insegni in quell'arte di cui sono stato prima discepolo e poi professore. Comunque non occorre che si dica ad alcuno che non se ne avveda da sé personalmente quanto esso sia bello e come faccia impressione in chi lo legge e comprende.
7. 21. In realtà molte leggi dell'eloquenza si possono riscontrare in questo unico passo che abbiamo preso come esempio; ma il buon uditore non lo si istruisce col sottoporre il brano ad accurate discussioni, quanto piuttosto lo si entusiasma pronunciandolo con ardente foga. Brani come questo infatti non sono stati composti dall'abilità umana ma sono stati dettati dalla mente di Dio, pieni di sapienza e di eloquenza: non con la sapienza subordinata all'eloquenza, ma con l'eloquenza che non si separa dalla sapienza. Difatti - e l'hanno potuto notare e dire alcuni uomini eloquentissimi e di grande ingegno 20 - le cose che si apprendono nell'arte oratoria non sarebbero osservate e notate e redatte in corpo di dottrina se prima non si trovassero negli ingegni degli oratori. Cosa c'è, quindi, di strano se le si trova anche nei nostri scrittori, mandati da colui che creò le menti? Pertanto, riconosciamo che i nostri autori e maestri canonici sono non solo sapienti ma anche eloquenti, di quella eloquenza che conveniva a tale categoria di persone.
8. 22. Quanto a noi, siamo soliti prendere degli esempi di eloquenza da quei loro scritti che si comprendono senza difficoltà. Al contrario non riteniamo di doverli imitare in ciò che dissero in maniera oscura con intenti di utilità e di salvezza. Con ciò essi si proponevano di esercitare e, per così dire, limare le menti dei lettori, di escludere il tedio e aguzzare l'ingegno di coloro che volevano apprenderne [il senso], o anche di nasconderlo agli animi degli empi, sia che lo facessero per convertirli a un profondo senso di rispetto, sia che volessero escluderli dalla comprensione dei misteri. In effetti essi hanno parlato in modo che quanti fra i posteri li avessero capiti ed esposti rettamente fossero meritevoli di conseguire nella Chiesa di Dio una seconda grazia, certo diversa ma conseguente alla loro. Chi pertanto si accinge a spiegarli non deve parlare come se avesse la stessa autorità dei libri che espone; ma in tutti i suoi discorsi si sforzi prima di tutto e soprattutto di far capire i libri stessi. Ciò otterrà, per quanto è possibile, con la chiarezza dell'eloquio, per cui se un uditore non capisce, o dipende dall'essere egli molto tardo d'ingegno ovvero dalla difficoltà ed elevatezza delle cose che intendiamo spiegare e dilucidare, ma non deve esserne motivo il nostro modo di parlare, né deve per questo avvenire che quanto diciamo venga compreso imperfettamente o con ritardo.
9. 23. Succede a volte d'imbattersi in affermazioni che per la loro indole sono incomprensibili o le si comprendono a mala pena, per quanto sia grande e completo il modo di dire di chi parla e ampia la sua spiegazione. Ora queste cose o molto raramente e solo per necessità o mai assolutamente debbono farsi ascoltare dal popolo. Tutt'altro è dei libri. Essi si scrivono per conquistare il lettore che li comprende; che se invece non li si comprende, non sono di peso per chi non vuole leggerli. Lo stesso vale per i colloqui con certe persone: non si deve tralasciare il dovere di portare alla comprensione degli altri le verità che, sebbene difficilissime, noi abbiamo penetrato, qualunque sia lo sforzo richiesto dalla esposizione. Se un uditore o un interlocutore è preso dal desiderio di imparare e non è privo di intelletto che gli consenta di recepire le cose che gli sono proposte, colui che insegna non deve preoccuparsi dell'eloquenza con cui insegna ma dell'evidenza che vuol conseguire.
10. 24. Il desiderio profondo di [ottenere] questa evidenza porta a volte a trascurare le parole più ricercate e non si prende cura di ciò che suona bene ma di ciò che esprime e manifesta quanto l'oratore ha intenzione di palesare. In ordine a ciò, disse un tale, parlando di questo genere di eloquenza, che c'è in essa una specie di negligenza diligente 21. Questa negligenza però, se esclude il parlare forbito, non lo fa in modo che cada nella banalità. Peraltro nei buoni maestri è, o deve essere, tanta cura che, se una parola non può essere latina senza essere nello stesso tempo oscura o ambigua - mentre se la cosa viene detta in termini popolari si evita e l'ambiguità e l'oscurità - non si deve parlare con il linguaggio dei dotti ma piuttosto come sogliono i meno istruiti. Così i nostri traduttori non ebbero ritegno di dire: Non congregabo conventicula eorum de sanguinibus 22 [= non radunerò le loro assemblee di sangue], perché ritennero necessario che in quel passo il nome " sangue " fosse usato al plurale, nonostante che in latino lo si usi solo al singolare. Perché un oratore sacro dovrebbe quindi aver paura di dire, parlando a degli incolti, ossum invece di os, per impedire che questa sillaba venga presa come derivante non da quel nominativo il cui plurale è ossa ma da quell'altro da cui deriva il plurale ora, dato che gli orecchi degli africani non sono in grado di percepire la brevità o la lunghezza delle sillabe? Cosa giova infatti una scrupolosità nel parlare che non sia seguita dalla comprensione di chi ascolta, (mentre l'unica ragione del parlare non è assolutamente altra che questa)? Se cioè coloro per i quali noi parliamo in effetti non capiscono il nostro dire? Chi insegna eviterà dunque tutte le parole che non insegnano nulla, e, se in loro vece potrà dirne delle altre corrette e intelligibili, sceglierà queste; se invece non potrà farlo, o perché non ci sono o perché sul momento non gli vengono in mente, si servirà di parole anche meno corrette, purché la cosa in sé sia insegnata e appresa con la necessaria esattezza.
10. 25. Questa cosa, cioè il farsi capire, dobbiamo ad ogni costo proporcela non solo nei dialoghi tenuti o con una persona o con molte ma anche, e molto più, quando si tengono discorsi al popolo. In realtà, nei dialoghi ognuno può fare delle interrogazioni, mentre invece là, dove tutti tacciono perché sia udita la voce di uno a cui sono rivolti gli sguardi attenti dell'uditorio, lì non è uso né convenienza porre domande su ciò che non si è compreso. Per questo motivo la premura di chi parla deve con ogni sforzo andare incontro a chi è costretto a tacere. È vero che una folla smaniosa di conoscere suole con determinati gesti indicare se abbia capito, ma finché non lo ha indicato bisogna trattare in molti modi l'argomento che si spiega e sempre con molta varietà di esposizione, cosa impossibile a coloro che espongono cose imparate antecedentemente e mandate a memoria a paroletta. Quando poi ci si accorgerà che l'argomento è stato compreso, si deve o por fine al discorso o passare ad altro tema. Difatti, come è gradito colui che rende chiare le cose da conoscersi, così diviene pesante chi insiste su cose ormai note ripetendole all'ascoltatore le cui attese miravano esclusivamente a che venisse dilucidata la difficoltà di ciò che si stava esponendo. È vero che a volte si parla anche di cose note al fine di dilettare; ma lì non si bada tanto alle cose in se stesse quanto al modo di presentarle. Che se anche questo è conosciuto e piace agli uditori, poco o nulla interessa se chi lo riferisce sia lo stesso oratore o un lettore. In effetti le cose scritte in maniera appropriata vengono poi lette con gusto non solo da coloro che ne vengono a conoscenza per la prima volta ma vengono rilette, non senza pari gusto, anche da coloro che da tempo le conoscevano e non se ne erano dimenticati. Gli uni e gli altri le ascoltano volentieri. Quanto poi alle cose di cui ci si è dimenticati, quando le si ricorda è come se venissero insegnate daccapo. Ma ora non voglio trattare del modo di rendersi piacevoli; parlo solo del modo di insegnare le cose a coloro che desiderano impararle. E il modo migliore è questo: far sì che chi ascolta ascolti la verità e comprenda ciò che ha ascoltato. Quando un tale scopo sia stato raggiunto, non ci si deve affannare più oltre intorno alla stessa cosa, quasi per insegnarla più diffusamente, ma si deve solo - se del caso - raccomandarla perché si fissi nel cuore. Che se si riterrà opportuno fare questo, lo si faccia con moderazione per non tediare.
11. 26. In fatto di insegnamento l'eloquenza consiste precisamente in questo: parlare non perché piaccia ciò che incuteva orrore né perché si compia ciò che creava difficoltà, ma perché appaia manifesto ciò che era oscuro. Se tuttavia questo si fa in maniera sgradevole, il suo frutto è percepito solo da quei pochi appassionati che desiderano sapere le cose da apprendersi anche se dette in modo scadente e disadorno. Quando si sono appropriati della verità, si nutrono del gusto di lei, poiché la nota caratteristica dei buoni ingegni sta in questo: nelle parole, amare la verità non le parole. Cosa giova infatti una chiave d'oro se non è in grado di aprire ciò che vorremmo? O che male c'è se una chiave è di legno ma riesce ad aprire? In effetti noi non ci preoccupiamo d'altro che di aprire ciò che è chiuso. Ma poiché hanno fra loro una certa somiglianza quelli che mangiano e quelli che apprendono, ecco che per evitare il disgusto dei più si debbono condire anche quegli alimenti senza i quali non si può vivere.
12. 27. Un personaggio celebre per la sua eloquenza ha detto - e diceva la verità - che l'oratore deve parlare in modo da istruire, da piacere e da convincere. E aggiungeva: Istruire è necessità; piacere, dolcezza; convincere, vittoria 23. Di queste tre cose quella che è stata segnalata al primo posto, cioè la necessità di istruire, appartiene all'essenza stessa delle cose che diciamo, mentre le altre due riguardano il modo come le diciamo. Chi dunque parla allo scopo di istruire, finché non è stato compreso non ritenga di aver comunicato il suo sapere a colui che si proponeva di istruire. In effetti, sebbene abbia detto le cose che egli personalmente comprende, non deve ritenere di averle dette a colui dal quale non è stato compreso. Se al contrario è stato compreso, in qualunque modo le abbia dette le ha dette bene. Se invece vuol dilettare o convincere colui a cui parla, ciò otterrà non parlando come gli viene sulla lingua ma ricercando anche il modo di porgere. Pertanto come si deve piacere all'uditore per cattivarsene l'ascolto così lo si deve convincere per farlo passare all'azione; e come gli si piace parlando con gradevolezza, così lo si convince se si riuscirà a fargli amare quel che gli si promette, a temere ciò che gli si minaccia, a odiare ciò che gli si rimprovera, ad accettare ciò che gli si raccomanda, a dolersi di ciò che a fosche tinte gli si descrive come spiacevole. Così quando predichi che goda di ciò che procura gioia, che abbia compassione di coloro che a parole gli dipingi come persone meritevoli d'essere compatite, che eviti coloro che spaventandolo gli proponi di dover fuggire. Lo stesso si dica di ogni altra cosa che con l'eloquenza solenne può conseguirsi in ordine all'eccitare gli animi degli uditori non a conoscere ciò che si deve fare, ma a fare ciò che già conoscono come necessario a farsi.
12. 28. Se peraltro gli uditori ancora non conoscono [la cosa], è necessario, certo, che prima li si istruisca e poi commuova. E può capitare che, conosciute in se stesse le cose, se ne entusiasmino in modo che non occorra spronarli con maggiore sforzo di eloquenza. Quando invece è necessario, lo si deve fare, e la necessità sussiste quando, pur conoscendo quel che è da farsi, in realtà essi non lo fanno. Da ciò appare come l'istruire sia una cosa necessaria, in quanto gli uomini possono fare o non fare quel che conoscono, mentre chi direbbe che essi sono obbligati a fare quel che non conoscono? Ne segue che il convincere non sempre è di necessità, in quanto non sempre ne sussiste il bisogno: così nel caso che l'uditore abbia dato l'assenso all'oratore che insegna o riesce ad attirare piacevolmente. Che poi il consentire rappresenti la vittoria lo si ricava dal fatto che uno può insegnare e piacere ma non ottenere l'assenso. E allora cosa giovano le altre due cose, se manca questa terza? Ma nemmeno il piacere è cosa strettamente necessaria. Può succedere infatti che nello stesso discorso divenga palese la verità, e fin qui si resta nell'ambito dell'insegnamento. Non si tratta quindi del modo di parlare, né si bada a che rechi gusto o la verità o il modo di porgerla, ma sono le cose che di per se stesse, una volta chiarite, recano diletto, per essere conformi a verità. Ecco perché capita, e di frequente, che piacciano anche le cose false, una volta chiarite e dimostrate. Non piacciono perché sono false ma, essendo vero che sono false, piace l'argomentazione per la quale si dimostra essere vera la loro falsità.
13. 29. Per andare incontro a quei tali cui, per essere schizzinosi, la verità non piacerebbe se la si presentasse in qualsiasi modo, ma la si deve porgere solo in modo che insieme piaccia anche il discorso dell'oratore, è stata attribuita nell'eloquenza non piccola importanza anche alla piacevolezza del dire. Questa tuttavia, anche se presente, non basta per certi animi induriti cui non reca giovamento né l'aver capito né l'aver gustato l'eloquenza dell'oratore. Che vantaggio infatti recano queste due doti del discorso all'uomo che confessa la verità e loda l'eloquenza, tuttavia non presta l'assenso, che è l'unico scopo a cui tende l'oratore nelle cose che dice volendo creare una persuasione? Se si insegnano infatti cose in cui sia sufficiente credere o conoscere, il consentire ad esse altro non è che confessare la loro verità; ma quando si insegnano cose che si debbono fare e le si insegna appunto perché le si faccia, è vano rendere l'uditore persuaso della verità di ciò che si dice, è vano anche il fatto che piaccia il modo di porgere, se le cose non le si imparano in modo che vengano tradotte in pratica. Occorre dunque che l'oratore ecclesiastico, quando inculca cose da praticarsi, non solamente insegni per istruire o piaccia per impressionare ma anche che convinca in modo da vincere [le resistenze]. Se infatti in un uditore la verità esposta anche con l'aggiunta d'una suadente dizione non consegue l'effetto d'essere accettata, non resta che lo si pieghi a prestare il consenso mediante la forza di una eloquenza solenne.
14. 30. All'incanto di quest'arte è stato attribuito dalla gente tanto pregio che con essa vengono persuase non solo cose da non farsi, ma anche molti e gravi mali e turpitudini, che sono da fuggirsi e detestarsi. Cose di questo genere sono, viceversa, insegnate da gente cattiva e turpe con tanta eloquenza che, se loro non si consente, almeno vi si prova diletto a leggiucchiarle. Peraltro allontani Dio dalla sua Chiesa ciò che il profeta Geremia diceva rimproverando la sinagoga dei Giudei: Cose spaventose e orribili sono avvenute sulla terra: i profeti profetavano cose inique e i sacerdoti applaudivano con le loro mani e il mio popolo amò tutto questo. E che farete per l'avvenire? 24 O eloquenza tanto più tremenda quanto più pura, e quanto più solida tanto più veemente! Vera scure che spezza le pietre! A tale scure, disse Dio in persona per bocca dello stesso Profeta 25, è simile la sua parola proferita ad opera dei santi Profeti. Lungi dunque, lungi da noi la disgrazia che i sacerdoti applaudano a chi dice cose inique e il popolo di Dio le ami! Lungi da noi, dico, tanta follia! Cosa dovremmo fare quindi per l'avvenire? Ammesso pure che le parole siano meno comprese, piacciano di meno e stimolino di meno, tuttavia le si dicano lo stesso, e che siano ascoltati volentieri gli insegnamenti giusti e non quelli iniqui: cosa che certo non avverrebbe se non venissero detti con finezza oratoria.
14. 31. In una assemblea di gente seria - di cui è detto a Dio: Ti loderò in mezzo ad un popolo serio 26 - non è gradita nemmeno quella artificiosità con cui si parla di cose certo non cattive, ma si adornano di veste pomposa le cose ordinarie e banali, come non si adornerebbero opportunamente e seriamente nemmeno le cose grandi e consistenti. Qualcosa del genere è in una lettera del beato Cipriano: e ciò io credo essere capitato, o anche fatto di proposito, affinché si sapesse dai posteri come il rigore della dottrina cristiana abbia distolto la lingua da simili ridondanze e l'abbia ristretta nell'ambito di una eloquenza più seria e moderata. Tale è appunto l'eloquenza che si riscontra nelle sue lettere successive e che si ama serenamente, si desidera con religiosità, anche se si raggiunge con difficoltà. Diceva dunque in un noto passo: Dirigiamoci a questa sede; i dintorni solitari ci consentono d'appartarci; là le volute vaganti dei tralci si distendono con nodi pendenti fra le canne che le reggono e con tetti frondosi fanno un portico risultante di viti 27. Cose come queste non si dicono senza una fecondità mirabilmente copiosa di eloquenza, ma per essere eccessivamente cariche sconvengono alla gravità [del discorso]. Quanto a quelli che amano questo modo di fraseggiare, nei confronti di chi non parla così ma si esprime più sobriamente riterranno che costoro sono incapaci di usare tale eloquenza, non che la evitano di proposito. Contro di ciò notiamo che quell'uomo santo mostrò e di sapersi esprimere con ricercatezza, perché lo fece in qualche brano, e di rifuggire da tale gergo, poiché in seguito non lo si trova più.
15. 32. Il nostro oratore dunque parlerà di cose giuste, sante e buone - di null'altro infatti deve parlare -; e parlando di queste cose userà ogni risorsa possibile perché lo si ascolti in maniera comprensibile, con piacere e con docilità. Il fatto poi che riesca a tanto - se ci riesce e nei limiti entro i quali ci riesce - non dubiti di attribuirlo più alla devozione nella preghiera che non alle risorse oratorie: per cui, dovendo pregare e per sé e per coloro ai quali rivolgerà la parola, sarà prima uomo di preghiera che predicatore. Avvicinandosi l'ora di parlare, prima di muovere la lingua per parlare sollevi a Dio l'anima assetata, in modo che proferisca quel che ha bevuto e versi ciò che lo riempie. In effetti, su ogni argomento che tocchi il campo della fede e della carità ci molte sono le cose da dire e molti i modi con cui le può dire chi le conosce. Ora chi potrebbe valutare rettamente cosa noi dobbiamo dire volta per volta o cosa si aspettano gli uditori di ascoltare da noi all'infuori di colui che penetra i cuori di tutti? E chi fa sì che noi diciamo quel che occorre e com'è necessario se non colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi 28? Pertanto chi vuol conoscere la verità e insegnarla impari, certo, tutto ciò che deve insegnare; si procuri una capacità espressiva quale conviene ad un uomo di Chiesa; ma giunto il momento di dover parlare, pensi che a una mente bene intenzionata conviene regolarsi come diceva il Signore: Non pensate a cosa o a come dovete parlare; vi sarà dato infatti in quel momento ciò che dovete dire, poiché non siete voi a parlare ma parla in voi lo Spirito del Padre 29. Se è dunque lo Spirito Santo colui che parla in coloro che per Cristo vengono consegnati ai persecutori, perché non dovrebbe essere lo stesso Spirito Santo a parlare in coloro che presentano Cristo a chi lo vuole conoscere?
16. 33. Chi poi dice che non occorrono norme sugli argomenti che si debbono insegnare o sul come insegnarli per il fatto che è lo Spirito Santo a renderci maestri, potrebbe anche dire non essere necessario nemmeno pregare perché il Signore dice: Il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno prima ancora che glielo chiediate 30. Allo stesso modo si dovrebbe dire che l'apostolo Paolo non doveva prescrivere a Timoteo e a Tito cosa e come insegnare agli altri. Sono viceversa queste tre lettere dell'Apostolo quelle che deve avere sempre dinanzi agli occhi colui che nella Chiesa ha ricevuto l'incarico di ammaestrare. Non si legge infatti nella Prima Lettera a Timoteo: Annunzia queste cose e insegna 31? Quali poi siano queste cose, è stato detto sopra. Non si legge ancora nella stessa: Non rimproverare un presbitero ma scongiuralo come un padre 32? E nella Seconda Lettera non gli si dice: Conserva la forma delle parole salutari che hai udite da me 33? E ancora nella medesima: Fa' del tutto per presentarti a Dio come ministro accetto, che non si vergogna ma tratta fedelmente la parola di verità 34? In essa è anche scritto: Predica la parola, insisti a tempo opportuno e inopportuno, ammonisci, scongiura, rimprovera con ogni pazienza e sapienza 35. Lo stesso nella Lettera a Tito. Non vi dice forse che il vescovo deve insistere con le sue parole nella dottrina della fede, sì da essere energico nella sana dottrina e riprendere chi la contraddice 36? Vi dice ancora: Tu peraltro di' le cose che sono conformi alla sana dottrina: che i vecchi siano sobri 37, con quel che segue. E ancora: Parla di queste cose, esorta e rimprovera con grande autorità 38. Nessuno ti disprezzi. Esortali ad essere sottomessi ai sovrani e alle autorità 39, eccetera. Che pensare dunque? Forse che l'Apostolo sia in contrasto con se stesso quando, dopo aver detto che i maestri della Chiesa sono mossi dall'azione dello Spirito Santo, comanda loro cosa e in che modo debbano insegnare? O non sarà piuttosto da intendersi che il compito di certi uomini, favoriti di doni dello Spirito Santo, non può non estendersi anche all'istruzione degli stessi maestri, sebbene resti vero che né chi pianta è qualcosa né chi irriga ma Dio che fa crescere 40? Ecco perché, sebbene ci sia il ministero di santi uomini o anche l'intervento degli angeli santi, nessuno apprende rettamente quanto concerne la vita di unione con Dio se da Dio non è reso docile a Dio, al quale si dice nel salmo: Insegnami a compiere il tuo volere poiché tu sei il mio Dio 41. Nello stesso senso l'Apostolo dice ancora a Timoteo, parlando da maestro a discepolo: Tu però persevera nelle cose che hai imparate e sono state a te affidate sapendo da chi le hai apprese 42. Succede qui come nei medicamenti: applicati dagli uomini ad altri uomini, non fanno effetto se non in coloro cui Dio concede la salute. Dio può certo guarire anche senza medicine, mentre le medicine senza di lui non valgono a nulla, anche se occorre usarle, e, se si esercita la medicina per compiere un dovere, ciò è considerato come un'opera di misericordia o di carità. Lo stesso è degli aiuti prestati con l'insegnamento. Somministrati tramite l'uomo, essi giovano all'anima se Dio interviene per farli giovare: quel Dio, dico, che avrebbe potuto dare all'uomo il suo Vangelo anche senza l'uomo e il suo intervento.
17. 34. Pertanto colui che nel suo dire si prefigge di persuadere con ogni sforzo ciò che è buono, senza disprezzare nessuna delle tre cose, cioè insegnare, piacere e convincere, preghi e si dia da fare perché, come abbiamo detto, venga ascoltato con intelligenza, volentieri e con docilità. Che se riesce a far questo adeguatamente e convenientemente, meriterà il nome di persona eloquente, anche se non seguirà l'assenso nell'uditore. Sembra inoltre che a queste tre finalità, cioè insegnare, piacere e convincere, si riallaccino anche le altre tre elencate da quel celebre autore di eloquenza romana quando diceva: Sarà dunque eloquente colui che saprà dire le cose piccole in tono dimesso, le cose di modeste in tono moderato, le cose grandi con eloquenza solenne 43. È come se volesse aggiungere anche le altre tre cose e così spiegasse la stessa e identica massima dicendo: Sarà dunque eloquente colui che nell'insegnare sa dire le cose piccole in stile dimesso, per piacere sa dire le cose di media levatura in tono moderato, per convincere sa dire le cose grandi con eloquenza solenne.
18. 35. Quel nominato autore avrebbe potuto mostrare come le tre forme del dire da lui descritte si usano nelle cause forensi, non però qui, cioè nelle problematiche ecclesiastiche dove si svolge il discorso di colui che noi vogliamo addestrare. Là infatti si discute di cose piccole quando il giudizio verte su problemi di denaro, di cose grandi invece quando ne va di mezzo l'incolumità o la vita umana. Quando poi non si deve giudicare né del primo né del secondo argomento e non si tratta di cose che l'uditore deve fare o decidere ma è solo questione di solleticare il gusto, si è come nel mezzo fra i due estremi e perciò quella eloquenza fu chiamata " modesta ", cioè misurata. Il termine modus (" misura ") ha dato il nome a modicis (" misurato "). Infatti usiamo modica come sinonimo di parva in modo ingiustificato, non in senso proprio. Viceversa è dei nostri discorsi, in quanto tutte le cose che diciamo, specie quelle che predichiamo al popolo dall'ambone, le dobbiamo riferire alla salute degli uomini, e non alla salute temporale ma alla salvezza eterna (diciamo anche che occorre evitare la rovina eterna), sicché tutte le cose che diciamo sono grandi. Le stesse cause pecuniarie, concernenti cioè il guadagnare o perdere soldi, quando ne parla un oratore ecclesiastico non si possono considerare come piccole cose, sia che si tratti di una somma piccola come di una somma grande. Non è infatti piccola la giustizia che, naturalmente, dobbiamo rispettare anche quando si tratta di piccole somme di denaro, dicendoci il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto 44. Pertanto ciò che è insignificante è insignificante ma essere fedeli nelle cose insignificanti è una cosa grande. Difatti, come la ragione formale della rotondità, che cioè dal centro tante linee uguali si protendano verso l'esterno, è identica in un grande disco e in una piccola moneta, così, quando si compiono con giustizia le cose piccole, non per questo diminuisce la grandezza della giustizia stessa.
18. 36. Parlando dei giudizi profani (e quali saranno stati se non quelli pecuniari?), l'Apostolo dice: C'è forse qualcuno in mezzo a voi che, avendo una controversia con un altro, osi essere giudicato dagli iniqui e non presso i santi? O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se da voi è giudicato il mondo sarete incapaci di giudicare cose da nulla? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più dunque le cose secolari! Se dunque avrete dei giudizi su cose secolari, stabilite come giudici i più spregevoli della comunità. Lo dico a vostra vergogna. Possibile che non ci sia tra voi un qualche sapiente che possa far da giudice tra i fratelli? Ma ecco che un fratello contende col suo fratello, e il giudizio si fa di fronte agli infedeli! Ora è già uno smacco che abbiate litigi fra voi. Perché piuttosto non sopportate l'ingiustizia? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare? Ma ecco che voi compite l'iniquità e frodate, e questo a dei fratelli! O non sapete forse che gli iniqui non erediteranno il Regno di Dio? 45 Cos'è che suscita tanto sdegno nell'Apostolo? Che cosa egli riprende, rimprovera, sgrida, minaccia? Quale moto del suo animo egli denuncia con un'alterazione della voce così variata e così rude? Come mai, infine, impiega parole tanto solenni per cose così trascurabili? Tanta foga avrebbero dunque provocato in lui affari terreni? No di certo! Ma egli parla così a motivo della giustizia, della carità, della fede, le quali cose, senza che alcuno sano di mente possa dubitarne, anche nelle questioni piccole sono realtà importanti.
18. 37. Certamente, se ammonissimo i lettori sul modo come debbono trattare gli affari mondani, o per sé o per i propri familiari, dinanzi ai giudici ecclesiastici, giustamente li esorteremmo a presentare le cose con tono dimesso, essendo appunto cose di poco conto. Ma parlando noi qui del modo di esprimersi di colui che vogliamo sia maestro di quelle verità per le quali si è liberati dai mali eterni e si perviene ai beni eterni, ogniqualvolta si tratta di queste cose, o dinanzi al popolo o in privato, sia che ci si rivolga a uno sia a più, sia con amici che con nemici, sia in un discorso prolungato sia in un dialogo, sia in trattati sia in libri, sia in lettere o molto lunghe o molto brevi, si tratta sempre di cose grandi. Forse dare un bicchiere di acqua fresca è una cosa minima e di nessun valore; ma il Signore non disse una cosa minima e insignificante quando asserì che chi l'avesse dato a un suo discepolo non avrebbe perso la sua ricompensa 46. Se, pertanto, il nostro dottore parlerà di questo tema nella Chiesa, non dovrà ritenere che parla di una cosa piccola, e quindi può parlarne non con eloquenza temperata né con eloquenza solenne ma con tono dimesso. Quando parlammo al popolo di questo tema, e Dio mi assisté perché non ne parlassi con parole inadeguate, non accadde forse che da quell'acqua fredda - diciamo così - si sollevasse una enorme fiamma 47, tale da accendere, con la speranza della ricompensa celeste, anche i cuori di uomini freddi e spingerli a compiere opere di misericordia?
19. 38. Sebbene il nostro dottore debba parlare di cose grandi, non sempre deve dirle con eloquenza solenne, ma con stile dimesso quando insegna e con tono temperato quando rimprovera o elogia alcunché. Quando invece si tratta di cose da farsi e il discorso è rivolto a persone che dovrebbero farle ma non vogliono, allora dette cose, che sono grandi, le si deve dire con eloquenza solenne, capace di piegare gli animi. Capita a volte che di un e identico argomento, di per sé elevato, si debba parlare con stile dimesso, se lo si insegna; in tono temperato se lo si predica; e con eloquenza solenne se si tratta di far tornare indietro un animo traviato. Cosa c'è infatti più grande di Dio? E non sarà, per questo, oggetto di apprendimento? Ovvero chi insegna l'unità nella Trinità non dovrà trattarne in tono dimesso, di modo che il tema, di per sé difficile a conoscersi, possa essere compreso, nei limiti del possibile? O che si dovranno in tal caso ricercare i fronzoli e non gli argomenti? O che si tratta forse di piegare l'uditore perché faccia qualcosa o non piuttosto istruirlo perché impari? Viceversa, quando si loda Dio o in se stesso o nelle sue opere, quale forma di elocuzione bella, anzi splendida, non sorge dalle labbra di colui che riesce a lodarlo quanto gli è possibile, pur essendo vero che nessuno lo sa lodare come meriterebbe e tuttavia nessuno può non lodarlo? Se invece non lo si adora o insieme con lui o al di sopra di lui si adorano gli idoli o i demoni o qualsiasi altra creatura, questo è un grande disordine, e al fine di distorglierne gli uomini si deve senz'altro parlarne con eloquenza solenne.
20. 39. Un esempio di stile dimesso si ha nell'apostolo Paolo - tanto per riferire una cosa a tutti accessibile - là dove dice: Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non avete ascoltato la legge stessa? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello della schiava è nato secondo la carne, quello della donna libera in virtù della promessa. Ora tali cose sono dette per allegoria. Le due donne infatti rappresentano le due alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. Il Sinai infatti è un monte nell'Arabia, e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, la quale è serva insieme con i suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre 48. E parimenti là dove argomenta dicendo: Fratelli, parlo a modo umano, ma un patto stabilito tra uomini nessuno lo annulla o ci fa delle aggiunte. Ora ad Abramo furono annunciate delle promesse, a lui e alla sua discendenza. Non dice: Ai suoi discendenti come se fossero molti, ma a uno solo: alla sua discendenza, che è Cristo. Ora io dico questo: un patto stabilito da Dio, una legge venuta quattrocentotrent'anni dopo non lo annulla sì da rendere vana la promessa. Se l'eredità fosse dalla legge, non sarebbe più dalle promesse; ma ad Abramo l'ha data Dio, in virtù della promessa 49. E perché l'uditore poteva pensare: Perché dunque è stata data la legge, se da essa non deriva l'eredità?, egli stesso si pone questa difficoltà e risponde a modo di interrogazione: A qual fine dunque la legge? E immediatamente risponde: È stata accordata in ordine alle trasgressioni, finché venisse il discendente a cui era stata fatta la promessa, donata per mezzo di angeli ad opera di un mediatore. Ma non si dà mediatore di chi è solo, mentre Dio è uno solo 50. E qui veniva la domanda che l'Apostolo si era posto da sé: La legge è dunque in contrasto con le promesse di Dio? E risponde: Assolutamente no! E motivando l'affermazione dice: Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustizia sarebbe certo derivata dalla legge. Ma la Scrittura racchiude tutto nel peccato affinché la promessa fosse data ai credenti mediante la fede in Gesù Cristo 51. E ci sono altri esempi di questo genere. Rientra dunque nel compito di insegnare non solo rendere palesi le cose nascoste e sciogliere i nodi delle questioni ma anche ovviare alle altre questioni che, mentre si trattano le une, possano eventualmente presentarsi, affinché quel che veniamo dicendo non sia oppugnato o rigettato sulla base di queste ultime. A una condizione tuttavia, e cioè che la loro soluzione ci venga prontamente alla memoria e non siamo turbati dal fatto che ciò che non possiamo risolverle tutte. Succede infatti che alla questione [che si tratta] sopraggiungano altre questioni e a queste seconde, altre ancora. A trattarle e risolverle tutte si prolunga troppo il ragionamento e si richiede troppa attenzione, tanto che, se la memoria non è veramente forte e robusta, il trattatista non può ritornare agli inizi donde era sorto il problema. È quindi molto bene refutare [subito] la difficoltà, se viene in mente come farlo, perché non succeda di ricordarsene quando non c'è chi risponda o ci si ricordi quando l'obiettore è presente ma è ormai azzittito, sicché se ne parta senza essere stato sufficientemente guarito [del suo dubbio].
20. 40. Esempio di stile temperato si ha in queste parole dell'Apostolo: Non riprendere aspramente un anziano ma scongiuralo come un padre, i più giovani come fratelli, le anziane come madri, le giovani come sorelle 52. E in quelle altre: Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come ostia vivente, santa, accetta a Dio 53. E quasi l'intero brano di questa esortazione è in stile temperato: le parti più belle sono quelle in cui le cose simili si accoppiano armoniosamente alle simili, come i debiti quasi a loro restituzione. Tali sono anche le espressioni del brano seguente: Avendo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero, attenda al ministero; chi l'insegnamento, all'insegnamento; chi l'esortazione, all'esortazione; chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia. La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto; abbiate i medesimi sentimenti gli uni per gli altri. E con quanta bellezza tutte queste espressioni, così prolungate, terminano con quel periodo a due membri: Non avendo sentimenti di orgoglio, ma piegandovi a cose umili 54! E poco dopo dice: In questo perseverate: rendete a tutti quello che è loro dovuto: a chi il tributo il tributo, a chi la tassa la tassa, a chi il timore il timore, a chi l'onore l'onore. Tutte queste raccomandazioni, sparse membro a membro, vengono riepilogate e concluse con un periodo circolare di due membri: Non abbiate con alcuno nessun debito all'infuori di quello d'un amore vicendevole 55. E poco più avanti dice: La notte è passata e il giorno si è avvicinato. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce; camminiamo con onestà come durante il giorno; senza orge e ubriachezze; senza vizi e immoralità; senza litigi ed invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e le voglie della carne evitate di soddisfarle mediante la concupiscenza 56. Che se qualcuno avesse detto: " E non soddisfate le voglie della carne mediante la concupiscenza ", avrebbe senz'altro accarezzato l'udito con una chiusa più prolungata, ma il saggio traduttore ha preferito ritenere anche l'ordine delle parole. Come suonino queste parole nella lingua greca, in cui scrisse l'Apostolo, lo vedano coloro che in questa lingua sono esperti fino a distinguere tali finezze; quanto a me, la traduzione che ho fatta seguendo alla lettera l'ordine delle parole non mi sembra che scorra ritmicamente.
20. 41. Effettivamente, questi abbellimenti stilistici che consistono in cesure basate su numero e quantità bisogna dire che mancano nei nostri autori. Questo, se sia opera del traduttore ovvero - come ritengo più probabile - se essi stessi di proposito hanno evitato tali finezze che pur avrebbero loro meritato del plauso, non ardisco definirlo, poiché debbo confessare d'ignorarlo. Una cosa sola io so: che cioè, una persona esperta di prosodia e metrica volesse strutturare la frase secondo le norme di queste scienze - cosa che è facilissimo fare: basta spostare alcune parole, che hanno valore solo per il loro significato, o mutare l'ordine in cui le medesime si trovano - si accorgerà che a quegli uomini divini non mancò nessuna delle cose che nelle scuole dei grammatici o dei retori si sogliono ritenere di grande importanza. Vi troverà inoltre molte specie di locuzioni di bellezza così elevata - sono belle nella nostra lingua ma soprattutto nella loro - che non si trovano per nulla nelle letterature di cui i profani vanno tanto orgogliosi. Occorre tuttavia stare in guardia per non sminuire la portata di quelle sentenze divine e profonde mentre le si vuole sottoporre alla cadenza numerata. In realtà l'arte musicale, dove si applica in pieno la scienza dei numeri, non mancò ai nostri Profeti. Tant'è vero che quell'uomo dottissimo che è Girolamo ha sottolineato esservi anche della metrica, almeno per quanto riguarda la lingua ebraica 57, e per conservarne la verità nelle parole non ne ha voluto fare la traduzione. Quanto a me, per dire quel che sento e che mi è noto più che non lo sia agli altri e più che non l'opinione degli altri, non tralascio nel mio dire - per quanto modestamente ritengo di saper fare - queste cadenze ritmate, e mi piace moltissimo se riesco a trovarle anche nei nostri autori, e proprio perché ve le trovo assai di rado.
20. 42. Vi è poi lo stile solenne, che dista da quello temperato non tanto per il fatto che si adorna di parole eleganti ma perché esprime violenti affetti dell'animo. Accoglie, è vero, in sé quasi tutti gli abbellimenti formali, ma se non li ha, non ne va in cerca. È mosso infatti dal suo stesso impeto e, se assume eventualmente la bellezza dello stile, le assume perché sospinta dalla sua veemenza intrinseca, non perché vada in cerca di abbellimenti. Per ciò che tratta gli è sufficiente che le parole opportune non vengano scelte come esigenza di espressione ma conseguano l'ardore del cuore. In effetti, se un uomo forte e ardente nel combattere viene armato con una spada d'oro e tempestata di gemme, compie quello che con tali armi si può compiere, e lo compie non perché esse siano preziose ma perché sono armi. Quanto a lui, è sempre lo stesso ma compirà grandissime gesta quando nel vibrare il colpo l'ira gli fa sospingere la freccia 58. L'Apostolo tratta del tollerare pazientemente tutti i mali della vita presente per il servizio al Vangelo forti della consolazione che viene dai doni di Dio. L'argomento è importante e lo si tratta con eloquenza solenne dove non mancano gli ornamenti della retorica. Dice: Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salvezza. Non diamo ad alcuno motivo di inciampo perché non venga vituperato il nostro ministero, ma in ogni cosa raccomandiamo noi stessi come ministri di Dio con grande costanza, in mezzo alle tribolazioni, alle necessità, alle angustie, sotto i colpi, nelle prigionie, nelle sommosse, tra le fatiche e le veglie e i digiuni; vivendo in castità, con conoscenza, con longanimità e con dolcezza nello Spirito Santo, in amore sincero, con la parola della verità e la virtù di Dio; mediante le armi della giustizia, armi di offesa e difesa; fra la gloria e l'ignominia, fra la calunnia e la lode; come seduttori eppure veritieri; come ignoti eppur ben conosciuti; come moribondi ma siamo pur vivi; come castigati, ma non siamo messi a morte; come addolorati, eppure sempre lieti; come miserabili, ma facciamo ricchi molti; come gente che non ha nulla, eppure possediamo ogni cosa. Vedi ancora il suo ardore: La nostra bocca è aperta a voi, Corinzi; il nostro cuore si è dilatato 59, con tutto il resto che sarebbe lungo aggiungere.
20. 43. Non diversamente nella Lettera ai Romani tratta delle persecuzioni di questo mondo e come le si vince con la carità, poggiata sulla speranza certa dell'aiuto divino. Il suo dire è solenne e forbito. Sappiamo - dice - che a quanti amano Dio tutto concorre al bene, a coloro cioè che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: " Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello " 60. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore 61.
20. 44. La Lettera ai Galati è scritta per intero in stile dimesso, ad eccezione delle ultime parti, dove lo stile è temperato. L'autore tuttavia ad un certo punto vi inserisce un brano così carico di sentimenti che, sebbene privo di tutti quegli abbellimenti che si trovano nei passi ora citati, non potrebbe essere qualificato se non come di stile solenne. Dice: Osservate i giorni e i mesi e gli anni e le stagioni. Ho paura per voi; temo di essermi affaticato invano per voi. Siate come me, ve ne prego, poiché anch'io sono stato come voi. Fratelli, non mi avete offeso in nulla. Sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunziai la prima volta il Vangelo; e quella che nella mia carne era per voi una prova non l'avete disprezzata né respinta, ma al contrario mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. Dove sono dunque le vostre felicitazioni? Vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati anche gli occhi per darmeli. Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? Costoro si dànno premura per voi, ma non onestamente; vogliono estraniarvi [da me] perché mostriate zelo per loro. È bello invece essere circondati di premure nel bene sempre e non solo quando io mi trovo presso di voi, figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! Vorrei essere vicino a voi in questo momento e poter cambiare il tono della mia voce, perché non so cosa fare a vostro riguardo 62. Forse che qui ci sono delle antitesi o le parole sono collocate secondo una certa gradazione o vi sono delle cesure e frasi e periodi? Eppure non è tiepido il grande affetto in forza del quale, come bene ci accorgiamo, diviene bollente anche l'espressione.
21. 45. Queste parole dell'Apostolo sono insieme evidenti e profonde. Esse sono state scritte e imparate a memoria, di modo che, se in esse qualcuno non contento d'una lettura superficiale cerchi di penetrarne le profondità, gli occorre non solo chi le legga e le ascolti ma anche chi le commenti. Vediamo pertanto gli stessi generi del dire in coloro che, attraverso la lettura dei testi scritturali, fecero progressi notevoli nella scienza delle cose divine e salutari e poi la dispensarono alla Chiesa. Il beato Cipriano usa il genere dimesso in quel libro dove tratta del Sacramento del calice. Risolve in effetti il problema se il calice del Signore debba contenere soltanto acqua ovvero acqua mescolata a vino. Ma prendiamo da lì un qualche brano a mo' di esempio. Dopo l'apertura della lettera, cominciando ormai a risolvere la questione che si era proposto di trattare, dice: Sappi dunque che a noi è stato rivolto l'ammonimento che nell'offrire il calice dobbiamo osservare la tradizione apostolica e che non dobbiamo fare altro se non quello che per primo fece per noi il Signore: per cui il calice che si offre in sua memoria lo si offre con mescolanza di acqua e di vino. Dicendo infatti Cristo: " Io sono la vera vite " 63, il sangue di Cristo non è certo acqua ma vino. Né può aversi l'immagine che il suo sangue, con il quale siamo stati redenti e vivificati, si trovi nel calice se al calice manca il vino che rappresenta il sangue di Cristo, come insegnano il mistero e la testimonianza di tutte le Scritture. Troviamo infatti nella Genesi che questa stessa cosa accadde anticipatamente nel gesto simbolico di Noè, nel qual fatto ci fu una figura della passione del Signore. In effetti egli bevve il vino, si ubriacò, restò nudo in casa, giacque in terra con le cosce nude e scoperte, nudità che fu osservata dal suo figlio mezzano mentre dal figlio maggiore e da quello più piccolo fu ricoperta 64. Non è qui necessario riportare il resto, bastando riferire questo solo e cioè che Noè, fungendo da figura della verità avvenire, bevve non l'acqua ma il vino e così rappresentò la passione del Signore. Vediamo inoltre raffigurato il Sacramento del Signore nel sacerdote Melchisedech, secondo quello che attesta la divina Scrittura quando dice: " E Melchisedech, re di Salem, offrì pane e vino - era infatti sacerdote del Dio altissimo -, e benedisse Abramo " 65. Che poi Melchisedech fosse una figura di Cristo lo dichiara nei Salmi lo Spirito Santo quando parlando a nome del Padre dice al Figlio: " Prima della stella mattutina ti ho generato. Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedech " 66. Questo e tutto il seguito della lettera conservano il tono di un parlare dimesso, cosa che ogni lettore può facilmente constatare.
21. 46. Lo stesso fa sant'Ambrogio. Sebbene tratti di un argomento elevato, lo Spirito Santo, e voglia dimostrare come esso sia uguale al Padre e al Figlio, usa un genere letterario dimesso, perché l'argomento che ha preso a trattare non gli richiede ornamenti di parole o mezzi atti a commuovere l'affetto per piegare gli animi ma solo una documentazione oggettiva. Pertanto, al principio dell'opera, dice fra l'altro: Gedeone, avendo udito che, sia pur venendogli a mancare migliaia di uomini, il Signore avrebbe liberato dai nemici il suo popolo mediante un solo uomo, spinto dalla predizione divina offrì un capretto. Secondo l'ordine dell'angelo ne pose la carne sopra una pietra insieme con gli azimi e il tutto innaffiò con del brodo. Appena l'angelo di Dio toccò queste cose con la punta del bastone che teneva in mano, dalla pietra si sprigionò un fuoco che consumò il sacrificio che Gedeone stava offrendo 67. Da questo segno sembra sufficientemente indicato che quella pietra raffigurava il corpo di Cristo, poiché sta scritto: " Bevevano della pietra che li seguiva, e questa pietra era Cristo " 68. Questa nota non si riferisce certamente alla sua divinità ma alla sua carne, che inondò il cuore dei popoli assetati col fiume perenne del suo sangue. Già fin da allora dunque nel mistero fu reso noto che il Signore Gesù nella sua carne, una volta crocifisso, avrebbe cancellato i peccati del mondo, e non soltanto i delitti commessi con le azioni ma anche le cupidigie che hanno sede nell'animo. La carne del capretto dice infatti riferimento alle colpe di azione, mentre il brodo si riferisce alle attrattive della concupiscenza, come sta scritto: " Il popolo ebbe una pessima bramosia e disse: Chi ci darà carne da mangiare? " 69. Il fatto poi che l'angelo stese il bastone e toccò la pietra, dalla quale si sprigionò il fuoco, dimostra che la carne del Signore piena del divino Spirito avrebbe bruciato tutti i peccati degli uomini di qualsiasi condizione. Di questo diceva il Signore: " Sono venuto a portare il fuoco sulla terra " 70. Così nel resto del passo, dove egli si occupa soprattutto di insegnare e dimostrare il tema propostosi.
21. 47. Appartiene allo stile temperato l'elogio che fa Cipriano della verginità: Ora il nostro discorso si rivolge alle vergini, delle quali quanto più grande è la dignità tanto più grande deve essere in noi la cura. Sono il fiore spuntato dai germogli della Chiesa, splendore e ornamento della grazia spirituale, gioiosa prole nata a nostra lode ed onore, persone integre e incorrotte, immagine di Dio che rispecchia la santità del Signore, del gregge di Cristo porzione più splendente. Per esse e in esse gode e copiosamente fiorisce la gloriosa fecondità della madre Chiesa, e quanto più il numero della gloriosa verginità aumenta tanto più aumenta la letizia della madre 71. E in un altro passo, alla fine della lettera, dice: Come abbiamo portato l'immagine di colui che fu preso dal fango, così portiamo anche l'immagine di colui che discese dal cielo 72. Ora questa immagine la porta la verginità, la porta l'integrità, la porta la vera santità. La portano le vergini che ricordano i precetti di Dio, che praticano la giustizia unita alla religiosità, che sono salde nella fede, umili nel timore, forti in ogni genere di sopportazione, miti nel tollerare le offese, facili a usare misericordia, unanimi e concordi nella pace fraterna. Tutti questi precetti, ad uno ad uno, dovete rispettare, amare e mettere in pratica voi, o sante vergini, che, badando alle cose di Dio e di Cristo e, scelta per voi la porzione maggiore e migliore, precedete [gli altri fedeli] nell'altare incontro al Signore, al quale vi siete consacrate. Voi che siete avanti negli anni siate maestre delle più giovani; voi più giovani prestate alle più anziane i vostri servizi e siate di stimolo per le coetanee. Tenetevi deste con vicendevoli esortazioni, provocatevi alla gloria con una gara di esempi virtuosi: perseverate coraggiosamente, avanzate spiritualmente, arrivate felicemente [alla mèta] Ricordatevi di noi quando la vostra verginità comincerà ad esser in voi coronata 73.
21. 48. Anche Ambrogio usa il genere di esporre temperato e ornato quando alle vergini consacrate, come a modo di esempio, propone quello che debbono imitare nei [loro] costumi. Dice: Era vergine non solo di corpo ma anche di spirito; non macchiava la sincerità del suo affetto con alcun intrigo sleale. Era umile di cuore, seria nella parola, prudente nell'animo, assai moderata nel discorrere e avida di leggere. Riponeva la sua speranza non nelle ricchezze incerte 74 ma nell'ascoltare le suppliche dei poveri. Era assidua nel lavoro e riservata nel parlare; come giudice dei suoi pensieri era solita prendere Dio, non l'uomo; non danneggiava nessuno ma voleva bene a tutti 75. Rispettava le più anziane, non invidiava le compagne; fuggiva le vanterie, seguiva la ragione, amava la virtù. Quando mai costei offese i genitori sia pure con un moto del volto? quando si mise in discordia con i vicini? quando sdegnò gli umili? quando si burlò del debole o si tenne lontana dal povero? Fra gli uomini, era solita visitare solo quelle categorie di cui per misericordia non doveva vergognarsi e che non doveva evitare per pudore. Nessun cipiglio negli occhi, nessuna espressione procace sulla bocca, nulla di sconveniente negli atti. Nessun gesto molle, non incedere sdilinquito, non voce pettegola; per cui la stessa bellezza del corpo non era altro che l'immagine dello spirito e l'espressione dell'onestà. Una buona casa la si deve poter riconoscere fin dal vestibolo, e, non appena si entra, si deve poter discernere che dentro non ci sono tenebre, quasi che la luce della lucerna collocata dentro risplenda anche fuori. A che scopo dunque ricorderò la sua sobrietà nel cibo e l'attività nei suoi molti servizi? Nell'una si spinse oltre i limiti della natura, nell'altra si privò di quello stesso che la natura richiede. Nell'una non frappose alcun intervallo, nell'altra digiunò a giorni alterni. E se talvolta le veniva il desiderio di rifocillarsi, prendeva tanto cibo quanto fosse stato sufficiente per non morire, non per soddisfare il suo gusto 76, eccetera. Ho scelto questo brano come esempio di stile temperato in quanto nel brano citato l'autore non si propone di far votare la verginità a coloro che non l'hanno votata ma dice come debbono essere coloro che ne han fatto voto. In effetti per ottenere che l'animo intraprenda un tale e tanto proposito occorre senz'altro che sia mosso e infiammato con un discorso solenne. Peraltro il martire Cipriano scriveva sul comportamento delle vergini, non sull'abbracciare il proposito di verginità; il vescovo Ambrogio invece ritenne doverle infiammare anche a questo [e lo fece] con eloquenza solenne.
21. 49. Ricorderò tuttavia gli esempi di eloquenza solenne riferita ad un tema che tutti e due trattarono. Tutti e due infatti inveirono contro le donne che si colorano o, piuttosto, scolorano il viso con vari belletti. Trattando questo argomento dice, fra l'altro, il primo: Ecco un pittore che ha disegnato e abilmente colorato il viso, la bellezza e la forma corporea di una persona. Se, una volta dipinto e terminato il quadro, un altro, ritenendosi più esperto, vi mettesse le mani per rifare l'immagine già delineata e dipinta, sarebbe un grave torto verso il precedente artista e giusto sarebbe lo sdegno di costui. E tu crederai di poterti permettere impunemente l'audacia d'una così perversa temerarietà che offende Dio creatore? Se non sei, è vero, impudica nei riguardi degli uomini né ti tolgono la verginità i tuoi trucchi da sgualdrina, tuttavia avendo corrotto e violate le cose che sono di Dio diventi un'adultera ancora peggiore. Con quel che credi ornamento, con quel che credi fascino, tu attenti all'opera di Dio, tu diventi prevaricatrice contro la verità. Ecco la parola dell'Apostolo che ti ammonisce: " Gettate via il lievito vecchio per essere una nuova pasta, poiché siete azzimi. Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, sicché dobbiamo celebrare la festa non con il lievito vecchio né con il lievito della malizia e della cattiveria ma con gli azzimi della schiettezza e della verità " 77. O che si mantengono forse la schiettezza e la verità, quando si deturpano le cose schiette e le cose vere si mutano in cose menzognere con l'adulterazione fatta per mezzo del colore e i trucchi dei belletti? Il tuo Signore ti dice: " Non puoi rendere bianco o nero uno solo dei tuoi capelli " 78, e tu per sopraffare la voce del tuo Signore osi reputarti da più di lui? Con tentativo sfrontato e con disprezzo sacrilego ti tingi i capelli, e, con cattivo presagio della sorte futura, ti auguri di avere fin d'ora capelli colore di fiamma 79. Sarebbe troppo lungo aggiungere tutto il resto dei discorso.
21. 50. Parlando contro queste stesse persone il secondo dice: Da qui nascono quegli incentivi ai vari vizi, per cui si tingono le labbra con colori artefatti, e, mentre temono di dispiacere al proprio marito, adulterando il volto preventivano l'adulterio della castità. Quale aberrazione è mai questa: mutare l'aspetto naturale e cercare di mascherarlo! Mentre temono il giudizio del marito, manifestano la perversione del loro proprio giudizio. Colei infatti che desidera mutare le sue fattezze naturali pronunzia in primo luogo un giudizio contro di sé e mentre cerca di piacere agli altri, mostra già prima che non piace a se stessa. O donna, quale giudice cercheremo per valutare la tua bruttezza, all'infuori di te stessa, che temi di mostrarti [come sei]? Se sei bella, perché ti camuffi? Se sei brutta, perché vuoi apparire bella con falsi accorgimenti, non ottenendo grazia né dalla tua coscienza né da parte degli altri, che induci in errore? Tuo marito ama un'altra donna, tu vuoi piacere ad un altro uomo: e ti arrabbi se per caso ama un'altra, tu che gli sei stata maestra di adulterio! Sei tu la cattiva maestra del torto che subisci. Chi ha ceduto alle arti di un adultero rifugge dall'adulterio e, sebbene sia donna spregevole, non seguita a peccare con altri, sebbene pecchi dentro se stessa. Quasi quasi il peccato dell'adulterio è più scusabile poiché lì si pecca contro la castità, qui si altera la natura 80. Ritengo sufficientemente evidente che, dopo un simile tratto di eloquenza, le donne si sentano vivamente spinte a non alterare con belletti la loro forma naturale e a crescere nel pudore e nel timore. Pertanto questo genere di eloquenza non lo giudichiamo dimesso o temperato ma assolutamente solenne. E presso questi due uomini di Chiesa che fra tutti ho voluto citare e in altri che hanno insegnato il bene adeguatamente, cioè come richiesto dal tema, con acume, con abilità e fervore, in molti loro scritti o discorsi si possono trovare questi tre tipi di eloquenza; e chi li studia, a forza di leggerli o ascoltarli spesso, unendovi dell'esercizio personale può anche riuscire a farsene l'abitudine.
22. 51. Non si deve credere che sia contrario alle norme [dell'arte retorica] mescolare queste tre specie [di eloquenza]; anzi, se lo si sa fare appropriatamente, il discorso venga proprio variato secondo tutte e tre. Se infatti nel parlare ci si dilunga sulla stessa specie, si fa poca presa sull'uditore; se invece si passa da una specie all'altra, anche se si va un po' per le lunghe, il discorso si snoda più gradito. E ciò anche se ogni singola specie ha in se stessa, quando chi parla è eloquente, delle variazioni che non permettono ai sensi di chi ascolta né di raffreddarsi né d'intiepidirsi. È tuttavia più facilmente tollerabile l'uso prolungato dello stile dimesso che non di quello solenne. Le emozioni dell'animo infatti quanto più le si deve suscitare nell'uditore perché ci presti l'assenso, tanto meno, quando detta emozione è stata sufficientemente suscitata, si deve pretendere che si protragga nel suo animo. Si deve pertanto evitare che, mentre vogliamo elevare più in alto colui che è già elevato, lo si faccia scendere più in basso dal punto che aveva raggiunto. Vi si interpongano quindi frasi dette in stile dimesso, e allora sarà bello il ritorno a ciò che è da dirsi in forma solenne, di modo che l'impeto dell'eloquenza si alterni come i flutti del mare. Ne segue che lo stile solenne di eloquenza, se lo si deve usare a lungo, non deve essere il solo ad usarsi ma lo si deve rendere vario con l'inserzione degli altri generi del dire; tuttavia il discorso tutto intero lo si ascriverà a quel genere che in esso prevale.
23. 52. È interessante stabilire quale genere si deve intervallare con l'altro e quando lo si debba fare, poiché ci sono norme certe e fisse. Difatti nel genere solenne gli inizi debbono essere sempre o quasi sempre di genere temperato, ed è lasciato alla libera scelta dell'oratore dire delle cose in stile dimesso, anche di quelle che potrebbero essere dette in stile solenne. In tal modo le cose che si dicono con alta eloquenza dal confronto con le altre acquistano in solennità e per loro, come attraverso a delle ombre, divengono più luminose. Qualunque poi sia il genere usato, capita che si debbano sciogliere i nodi di qualche difficoltà. Lì c'è bisogno di acume: cosa propriamente riservata al genere dimesso. Per questo un tal genere, anche collegandolo con gli altri due, si deve usare quando capitano argomenti di questo tipo: quando, ad esempio, si deve lodare o riprovare qualcosa che non richieda né la condanna o la liberazione della persona né l'assenso a una qualche azione. Se ciò capita in mezzo a un altro genere oratorio, si deve usare e interporre il genere temperato. Nell'eloquenza solenne dunque trovano posto anche gli altri due generi, e lo stesso accade nell'eloquenza dimessa. Quanto al genere temperato, esso richiede, non sempre ma qualche volta, il genere dimesso, se, come ho detto, occorre risolvere il nodo di una qualche questione, o quando delle cose che potrebbero essere dette con linguaggio ornato non le si adorna ma le si dice con linguaggio dimesso affinché il posto più elevato lo si riservi agli ornamenti [del discorso], che così viene a trovarsi come sull'alto di un letto. L'eloquenza temperata non esige l'eloquenza solenne, in quanto si adopera per dilettare gli animi, non per eccitarli.
24. 53. Non si deve, ovviamente, ritenere che un oratore parli in stile solenne quando lo si acclama di frequente e con calore. Lo stesso risultato infatti ottengono e la finezza dello stile dimesso e gli ornamenti dello stile temperato. Il genere solenne al contrario il più delle volte col suo peso comprime le grida e fa sgorgare le lacrime. Una volta a Cesarea di Mauritania dovetti dissuadere il popolo da una guerra civile, o peggio che guerra civile, che essi chiamavano caterva. Era una battaglia feroce che in un determinato periodo dell'anno combattevano fra loro non solo i concittadini ma anche i parenti e i fratelli e persino i genitori e i figli. Si dividevano in due fazioni e si combattevano fra loro, a colpi di pietre, per alcuni giorni di seguito e, come a ciascuno riusciva, si uccidevano anche. Feci naturalmente ricorso allo stile solenne, come ne ero capace, per sradicare dai loro cuori e costumi un male così crudele e così inveterato, sperando di estinguerlo con la mia parola. Non ritenni tuttavia d'essere riuscito a concludere qualcosa finché non li vidi piangere, non già quando li avevo sentiti applaudire. In effetti, con le acclamazioni mi indicavano che avevano capito e ne godevano, con le lacrime invece che si erano convinti. Quando dunque li vidi piangere ritenni vinta, prima ancora che me lo mostrassero con i fatti, quella feroce consuetudine loro tramandata dai padri e dai nonni e dagli antenati per lunghi secoli, consuetudine che assediava o, meglio, possedeva da nemica i loro cuori. Non appena terminato il discorso, li esortai a volgere il cuore e la bocca a Dio per ringraziarlo; ed ecco sono già circa otto o più anni dacché, per benevola concessione di Cristo, nessuna azione di quella sorta è stata più tentata in quella città. Ci sono molti altri esempi da cui impariamo che gli uomini non mediante grida ma gemiti o, talvolta, con lacrime o, finalmente, col cambiamento dei costumi dànno a divedere ciò che ha operato in loro la sublimità di un discorso sapiente.
24. 54. Anche con l'uso del genere dimesso si sono cambiate diverse persone: hanno potuto sapere quel che non sapevano e credere a ciò che prima sembrava loro incredibile, non però si sono decise a praticare ciò che già sapevano doversi praticare ma non lo facevano. Per vincere una tale durezza c'è bisogno dell'eloquenza solenne. In realtà, le lodi e le disapprovazioni, quando le si dice con eloquenza anche usando il genere temperato, colpiscono certuni in modo che nelle lodi o nei rimproveri non solo si rallegrino per l'eloquenza ma anche desiderino vivere in modo lodevole ed evitino di vivere come loro si rimprovera. Ma forse che, tutti coloro che provano il gusto, di fatto si trasformano come fanno, quando si usa il genere solenne, tutti coloro che si convincono? Forse che, quando si usa il genere dimesso, imparano tutti coloro a cui si imparte l'insegnamento o credono nella verità delle cose fino allora sconosciute?
25. 55. Da quanto detto si deduce che quei due generi che mirano alla pratica sono soprattutto necessari a quanti vogliono parlare con sapienza ed eloquenza. Viceversa il genere temperato, nel quale è l'eloquenza stessa che piace, non lo si deve adoperare come fine a se stesso. Lo si deve impiegare per ottenere più presto e più tenacemente l'assenso degli uditori a cose che si dicono utilmente e rettamente. Così facendo, gli uditori si muoveranno più prontamente per il diletto che provoca in loro il discorso ma non hanno bisogno né dell'insegnamento né della spinta della parola, essendo già istruiti e inclini favorevolmente [all'azione]. In effetti, compito universale dell'eloquenza è, in tutti e tre questi generi, dire le cose in modo capace di ottenere la persuasione; il suo fine poi è persuadere con il discorso ciò che si intende [persuadere]. Orbene, in qualunque di questi tre generi si esprima l'oratore, dirà cose adatte per ottenere la persuasione, ma, se di fatto non persuade, non consegue il fine dell'eloquenza. Nel genere dimesso persuade che sono vere le cose che dice; nel genere solenne persuade a che siano tradotte in pratica le cose che già si conoscono come obbligatorie ma non si praticano; nel genere temperato persuade ad ammirare ciò che egli dice con begli ornamenti. Ma che bisogno abbiamo noi di ottenere una simile finalità? Ne vadano a caccia quelli che si gloriano della lingua e se ne vantano nei panegirici e in simili altri discorsi, dove nessuno è da istruirsi né da sospingersi a fare qualcosa ma l'uditore è soltanto da dilettarsi. Quanto invece a noi, riferiamo questa finalità all'altra: cioè anche mediante questo stile vogliamo conseguire quello che ci proponiamo quando parliamo in stile solenne, che cioè il bene morale venga amato e il male fuggito, sempre che la gente non sia così aliena da questo effetto da richiedere, a nostro avviso, proprio il parlare solenne. Lo usiamo inoltre affinché coloro che praticano il bene lo facciano con più cura e vi perseverino con maggiore fermezza. Ne segue che noi usiamo del genere temperato con la sua eleganza non per vanagloria ma conforme a sapienza; non ci contentiamo di dilettare l'uditore ma procuriamo che, anche con l'uso di questo genere, venga aiutato a raggiungere il bene che gli vogliamo inculcare.
26. 56. Colui che parla con sapienza e si propone di parlare anche con eloquenza deve ricorrere a questi tre generi del dire, se vuol essere ascoltato in modo da essere compreso, da tornare gradito e da ottenere l'adesione. L'affermazione però non si deve intendere quasi che i singoli effetti corrispondano all'uno o all'altro dei tre generi, dimodoché al genere dimesso corrisponda l'essere udito con comprensione, al temperato l'essere udito con gradimento e al solenne l'essere udito con adesione. Comunque, l'oratore abbia sempre di mira queste tre finalità e per quanto può veda di conseguirle tutte, anche quando si limita ad uno solo di quei tre generi. Non vogliamo infatti procurare della noia quando parliamo in stile dimesso e per questo vogliamo essere ascoltati non solo in modo da essere compresi ma anche accolti volentieri. E quando insegniamo desumendo il nostro dire dalle testimonianze di Dio, cosa ci proponiamo se non d'essere ascoltati docilmente, cioè che si presti loro fede con l'aiuto di colui al quale fu detto: Le tue testimonianze sono tutte molto degne di fede 81? Colui infatti che, sebbene con linguaggio dimesso, racconta qualcosa a chi la deve imparare, cosa intende se non che gli si creda? E chi vorrà ascoltarlo se non si concilia l'uditore anche con una certa eleganza? Se infatti non lo si comprende, chi non si rende conto che egli non potrà essere ascoltato né volentieri né docilmente? Spessissimo capita infatti che con il parlare dimesso si sciolgano questioni difficilissime e le si rendano chiare con una descrizione inattesa. Con esso parimenti si traggon fuori sentenze acutissime da non so quali nascondigli, da cui mai si sarebbe sospettato e le si mette in luce. Ci si convince di errore l'avversario e ci si insegna essere falso ciò che da lui era detto in maniera che sembrava irrefutabile. Con questo genere può andare unita soprattutto una grazia, non ricercata ma in certo qual modo ad esso connaturale, e un certo ritmo di clausole creato non per vanteria ma come necessario [al fraseggiare] e, per così dire, tratto dall'intimo delle cose stesse. In tali ipotesi lo stile dimesso è capace di strappare acclamazioni tali che a stento lo si potrebbe prendere per stile dimesso. Non dipende in realtà dal fatto che avanza disadorno o disarmato ma lotta a corpo nudo se riesce ad abbattere l'avversario con i nervi e con i muscoli, e così con le sue membra fortissime abbatte e distrugge la falsità che gli oppone resistenza. E perché mai con tanta frequenza e insistenza si acclamano coloro che usano questo genere del dire se non perché la verità così dimostrata, difesa e resa invincibile, provoca anche del piacere? Comunque, il nostro dottore e oratore anche quando usa questo genere dimesso deve ottenere il risultato di parlare non solo in modo da essere compreso ma anche ascoltato volentieri e docilmente.
26. 57. Anche l'eloquenza di genere temperato non è lasciata disadorna né la si abbellisce in maniera disdicevole dall'oratore ecclesiastico. Egli non cerca solo di piacere, unico intento che riscontra presso gli oratori profani, ma anche nelle cose che elogia o disapprova vuole senza dubbio essere ascoltato docilmente sia per quanto concerne il desiderare e conservare le une come nell'evitare e respingere le altre. Se però quando lo si ascolta non lo si comprende, non può nemmeno essere ascoltato volentieri. Pertanto quelle tre finalità, che cioè gli uditori comprendano, provino godimento e obbediscano, le si deve avere in vista anche in questo genere dove il primo posto lo tiene senza dubbio il dilettare.
26. 58. Quando poi è necessario smuovere e convincere l'uditore col genere solenne - e questo è necessario quando costui riconosce che si dice la verità e la si dice attraentemente ma poi si ricusa di fare quanto vien detto -, allora senza dubbio bisogna ricorrere all'eloquenza solenne. Ma chi potrà muoversi all'azione senza conoscere quel che gli si dice? o chi viene afferrato in modo che presti ascolto se non ci prova alcun gusto? Ne segue che anche in questo genere, dove con la solennità del dire ci si preoccupa di piegare all'obbedienza il cuore indurito, l'oratore non sarà ascoltato docilmente se non è ascoltato in maniera da essere compreso e affascinato.
27. 59. Per essere ascoltato docilmente, più che non la solennità dell'elocuzione, ha peso senza dubbio la vita dell'oratore. In effetti, uno che parla dottamente ed eloquentemente ma vive malamente, istruisce certo molti che sono bramosi di imparare ma, come sta scritto, non reca alcuna utilità alla sua anima 82. Al riguardo dice anche l'Apostolo: Sia per secondi fini sia con sincerità, purché si annunzi Cristo 83. In effetti Cristo è la verità, e tuttavia la verità può essere annunziata non con verità, cioè le cose giuste e vere possono essere predicate con cuore perverso e mendace. Così ad esempio viene annunziato Gesù Cristo da coloro che cercano i propri vantaggi, non quelli di Gesù Cristo. I buoni fedeli tuttavia, quando ascoltano, obbediscono non a un qualsiasi uomo ma al Signore in persona, secondo quello che egli diceva: Fate ciò che dicono ma non fate quello che fanno, poiché dicono e non fanno 84. Per questo motivo si ascoltano utilmente anche coloro che non agiscono con profitto personale. In realtà essi vanno in cerca del proprio interesse ma non ardiscono insegnare dottrine personali, almeno quando parlano dall'alto della sede che occupano nella Chiesa e che è costituita dalla sana dottrina. In vista di ciò lo stesso Signore, prima di dire a loro riguardo quel che ho sopra ricordato, diceva: Sedettero sulla cattedra di Mosè 85. Orbene quella cattedra, non loro ma di Mosè, li costringeva a parlare bene, pur comportandosi male. Nella loro vita agivano guardando al proprio interesse; dall'insegnare cose proprie li distoglieva quella cattedra, che apparteneva ad altri.
27. 60. Gli oratori che dicono cose che non fanno giovano, è vero, a molti; ma facendo quello che dicono gioverebbero a molti di più. Abbondano infatti persone che cercano di difendere la loro cattiva condotta appellandosi ai propri superiori e maestri. Nel loro cuore o, se la cosa giunge a farli sbottare, anche con la loro bocca rispondono dicendo: Ciò che comandi a me tu perché non lo fai? Succede così che non ascoltino docilmente il predicatore che, lui personalmente, non si ascolta e, insieme al predicatore, disprezzano la stessa parola di Dio che viene loro annunziata. Ne scrive l'Apostolo a Timoteo. Dopo avere detto: Nessuno disprezzi la tua età giovanile, aggiunge anche il motivo per cui non deve essere disprezzato e dice: Ma sii modello ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nell'amore, nella fede, nella castità 86.
28. 61. Un maestro di questo tipo, che voglia essere ascoltato docilmente, potrà parlare senza falsi pudori non solo usando lo stile dimesso e quello temperato ma anche quello solenne, per il fatto che non conduce una vita sciatta. Si è scelto la vita buona non trascurando nemmeno la buona fama ma arricchendosi di beni dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini 87, temendo per quanto può l'uno e cercando il bene dei suoi simili. Anche nel suo parlare preferisce piacere più per le cose [che dice] che non per le parole [con cui le dice] e non ritiene di parlare meglio se non quando parla più conforme a verità. Un tal maestro non sarà servo della parola ma la parola del maestro. Questo infatti inculcava l'Apostolo: Non nella sapienza della parola perché non sia privata della sua efficacia la croce di Cristo 88. Si riferisce a questo anche quanto detto a Timoteo: Non disputare a parole, cosa che non giova ad altro se non alla rovina di chi ascolta 89. Non che questo sia detto al fine di non farci dire nulla in favore della verità quando gli avversari la impugnano. Dove andrebbero, se no, a finire le parole che, fra l'altro, dice mostrando quale debba essere il vescovo: Che sappia insegnare la sana dottrina e controbattere gli avversari 90? Non sono infatti, le dispute di parole, arti per vincere l'errore con la forza della verità ma piuttosto per ottenere che le tue parole siano preferite a quelle dell'altro. Viceversa chi non fa dispute di parole, sia che parli in stile dimesso o temperato o solenne, questo intende con le sue parole: che la verità divenga palese, la verità piaccia, la verità spinga all'azione. Difatti anche la carità, che è fine del precetto e pienezza della legge 91, in nessun modo può essere buona quando le cose amate non sono vere ma false. È come quando uno ha bello il corpo ma deforme lo spirito: è da compiangersi più che se avesse deforme anche il corpo. Lo stesso si deve dire di quanti parlano eloquentemente di cose false: sono da compiangersi più che se ne parlassero in maniera sgraziata. In che cosa consiste dunque il parlare non solo con eloquenza ma anche con sapienza? Nell'usare, per le cose vere che occorra porgere all'uditorio, parole appropriate nel genere dimesso, brillanti nello stile temperato e possenti nello stile solenne. Ma se uno non riesce a ottenere le due cose insieme, preferisca dire con sapienza ciò che non sa dire con eloquenza, anziché dire con eloquenza cose insulse.
29. 61. Che se nemmeno questo [parlare in sapienza] gli riesce, si comporti in modo da dare agli altri il buon esempio, e faccia in modo che la sua condotta sia per loro una predica efficace.
29. 62. Ci sono, è vero, persone che possono declamare un bel discorso ma non riescono a comporre ciò che debbono pronunziare. In tal caso prendano uno scritto eloquente e sapiente composto da altri, lo imparino a memoria e lo declamino al popolo. Impersonandosi con l'altro, non fanno una cosa riprovevole. In questo modo, certo molto utile, un gran numero di persone diventano annunziatori della verità, pur non essendone maestri, purché tutti vadano d'accordo nel riferire le parole dell'unico Maestro e non ci siano scissioni fra loro 92. Persone come queste non le si deve spaventare con le parole del profeta Geremia, per bocca del quale Dio rimprovera coloro che rubano le sue parole, ciascuno dal suo vicino 93. Quelli che rubano infatti prendono la roba degli altri, ma la parola di Dio non è roba di altri se chi la prende è a lui soggetto; sarebbe roba altrui se uno, pur riferendola bene, vivesse male. Il bene che dice sembrerebbe concepito dal suo ingegno, ma in realtà è in contrasto con i suoi costumi. Pertanto dice Dio che rubano le sue parole coloro che vogliono apparire buoni, dicendo le cose di Dio, mentre invece sono cattivi regolandosi a proprio talento. Infatti, se ci badi attentamente, non sono essi a dire il bene che dicono. Come potrebbero infatti dirlo a parole se con la vita lo rinnegano? Non senza un perché di costoro dice l'Apostolo: Professano di conoscere Dio ma a fatti lo rinnegano 94. Da un lato dunque sono essi che dicono, dall'altro lato non sono essi, poiché sono vere tutte e due le cose asserite dalla Verità. Parlando infatti di gente come questa diceva: Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno 95. Cioè: Fate quel che ascoltate dalla loro bocca, ma non fate ciò che vedete nelle loro opere. E seguitava: poiché dicono ma non fanno 96. Dunque sebbene non pratichino, tuttavia dicono. Ma in un altro passo, rimproverando gente come questa, diceva: Ipocriti, come potete dire cose buone se siete cattivi? 97 Sotto questo aspetto anche le cose che dicono, quando parlano di cose buone, non sono loro a dirle in quanto con la volontà e la condotta rinnegano quello che dicono. Così capita che un uomo facondo e cattivo componga un discorso in cui si annunzia la verità affinché sia pronunziato da un altro che non è elegante ma buono. In questo caso il primo da dentro se stesso estrae cose non sue, quest'altro da una sorgente a lui estranea riceve cose sue. Quando poi i buoni fedeli prestano quest'opera ad altri buoni fedeli, tanto gli uni che gli altri dicono cose proprie, poiché loro è il Dio a cui appartengono le cose che essi dicono ed essi se le rendono proprie perché, anche se non furono loro a comporre il testo, tuttavia vi conformano la vita vivendo secondo quelle norme.
30. 63. Ecco dunque il nostro oratore sul punto di pronunciare il suo discorso davanti al popolo o a un qualsiasi gruppo, ovvero sul punto di dettare quel che sarà riferito al popolo o letto da chi vorrà o potrà. Preghi Dio affinché gli ponga in bocca un buon discorso 98. Se infatti la regina Ester, prima di parlare al re della salvezza temporale del suo popolo, pregò affinché Dio ponesse sulla sua bocca un discorso adeguato, quanto più deve pregare per ricevere un tal dono colui che si industria di ottenere con le parole e la scienza la salute eterna di tante persone 99? Quanto poi a coloro che proclameranno cose ricevute da altri, preghino prima di riceverle per coloro da cui le riceveranno, affinché sia dato ad essi ciò che da essi vogliono ricevere, e dopo che l'hanno ricevuto preghino affinché loro stessi possano ben proclamarlo e perché coloro per il cui bene si proclama lo ricevano. E della felice riuscita della proclamazione rendano grazie a colui dal quale, ne sono certi, hanno ricevuto il dono, di modo che chi si gloria si glori 100 in colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi 101.
31. 64. Il libro mi è riuscito più lungo di quel che volessi o pensassi; ma non sarà lungo per colui che leggendolo o ascoltandolo, lo troverà gradito. Se poi per qualcuno è lungo e d'altronde lo vuole conoscere, lo legga per parti. Quanto poi a colui che non si cura di conoscerlo, non si lamenti della sua lunghezza. Per me personalmente, io ringrazio il nostro Dio per avere potuto in questi quattro libri esporre - sia pure con le modeste risorse a me date - non chi o come sono io (al quale molte cose difettano) ma chi e quale debba essere colui che si ingegna di recare non solo a se stesso ma anche agli altri un valido contributo fatto di dottrina sana, cioè cristiana.
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